Cencelli sull'etere
di Massimo Luciani
Del disegno di legge governativo sul sistema della comunicazione si sa ancora troppo poco per poterne azzardare un commento tecnico. Già ora, comunque, si può abbozzare una prima valutazione delle sue linee essenziali. La cosa che più colpisce è la scelta di far saltare le regole che oggi disciplinano gli intrecci fra carta stampata, radiotelevisione e pubblicità. L’idea è di calcolare il totale delle risorse del sistema della comunicazione, vietando a ciascun operatore di possederne più del 20 per cento.
Questo 20 per cento, dunque, potrebbe avere la composizione più varia a discrezione del singolo imprenditore, senza che la legge abbia nulla da dire sul contenuto del mix. Di per sé, l’idea di consentire molteplici intrecci tra più mezzi meriterebbe di essere discussa. In questo modo, infatti, si potrebbero recuperare risorse imprenditoriali che oggi, anche se volessero, non possono essere mobili. Né si può dimenticare che già oggi alcuni intrecci ci sono e che, vista la normativa attuale, sono causa di non poche distorsioni (in particolare per il rapporto fra pubblicità e tv).
In astratto, allora, il progetto governativo potrebbe anche portare alla fine dell’attuale duopolio televisivo, consentendo l’ingresso di forze nuove sul mercato. E’ bene, però, porre subito almeno qualche domanda. Come sarà calcolato il totale delle risorse? Ne faranno parte i nuovi media? Saranno calcolati quei mezzi tradizionali che oggi sono usati in modo originale, come i giornali gratuiti? Come si terrà conto del progresso della tecnologia e della continua trasformazione dell’oggetto stesso della disciplina legislativa?
Su tutto, comunque, aleggiano tre interrogativi di fondo. Il primo riguarda l’effettivo grado di apertura che il mercato della comunicazione può avere nel nostro paese, almeno se si conta sui soli operatori nazionali, vista l’onerosità degli investimenti necessari. Il secondo dubbio riguarda la normativa transitoria. Se, per restare nel limite del 20 per cento, alcuni degli attuali operatori fossero costretti a dismettere una parte delle loro attività, la maggioranza sarà disponibile ad imporlo, visto che ha opposto un rifiuto assoluto ad un’ipotesi analoga, ventilata dall’opposizione nella discussione sul conflitto di interessi?
Infine, e più delicato degli altri, il dubbio che le risorse della comunicazione non siano tutte uguali, anche se - magari - sono parimenti valutabili in termini di fatturato. Un’impresa televisiva conta comunque più di altre imprese della comunicazione, perché la sua influenza sugli stili di vita delle persone e sulla pubblica opinione è del tutto particolare. L’idea che il «pozzo» delle risorse sia un tutto indifferenziato, nel quale ognuno può pescare a piacimento, non corrisponde granché alla realtà. Non è illogico pensare, allora, che debba essere corretta con qualche forma di opportuna ponderazione, scrivendo - diciamo così - un manuale Cencelli della comunicazione che rimetta le cose al loro posto.La Stampa, 7 settembre 2002