Questo
dunque è il normale sentire europeo (basti pensare, come esempio da
manuale, alla lunga preparazione, al comune operare di maggioranza e
opposizione, alla larga consultazione nel paese che hanno preceduto in
Gran Bretagna il freschissimo Comunication act del 17 luglio scorso). Né
meraviglia che si susseguano in questo campo - l´ultima è del 25 luglio
scorso quando il nostro progetto governativo era già blindato - le
direttive della Comunità europea. Costituzione europea significa anche
infatti indivisibilità dei concetti base delle libertà cittadine in ogni
angolo dell´Unione. La negazione in un solo Stato e in un solo punto e
per un solo diritto, tocca la coscienza giuridica dell´Europa tutta
intera.
Se questo è il clima comunitario sulla libertà di informazione, è del
tutto naturale che questo clima sia esasperato in Italia. Dove la grande
svolta istituzionale, avutasi con il maggioritario, si porta fin dalla
nascita l´ombra fonda della coincidenza tra potere politico e potere
proprietario dell´invasivo mezzo televisivo. E dove l´aggiunta del
controllo governativo sulla televisione pubblica crea un monopolio di
fatto. Quello che anche nel Parlamento europeo risuona come incompatibile
con le normali condizioni democratiche dell´Occidente.
Tuttavia, questa esasperazione di clima può essere dannosa. Una legge
come questa dev´essere infatti obbligatoriamente valutata nell´arco
delle riforme costituzionali: come pezzo indispensabile di garanzia nel
puzzle degli equilibri da ritrovare. Essa, dunque, dev´essere tenuta
fuori per quanto possibile dalle polemiche contingenti e giudicata nel suo
impatto di lungo periodo con il complessivo sistema politico e dell´informazione.
Hanno ragione dunque i vescovi italiani quando dicono che questo «non
dovrebbe in alcun caso essere ridotto a terreno di scontro ma indirizzare
invece i progressi tecnologici al miglioramento dei programmi e all´incremento
del pluralismo».
Senonché, giunto ad un punto che sembra di non ritorno, preso purtroppo
in ostaggio nella rissa continua della maggioranza, un progetto così
importante e nato con buone intenzioni, è finito per trovarsi incagliato
in passaggi istituzionali che non pare essere riuscito a superare. Per
insolito destino, vi è per esso come una inversione dell´onere della
prova. Esso non deve tanto difendersi da opinioni contrarie di
costituzionalisti più o meno all´opposizione, come normalmente accade
per i disegni governativi. Il progetto deve invece provare di essere in
regola rispetto a parametri ad esso precostituiti o a pronunciamenti che
provengono da autorità che con l´opposizione non hanno nulla a che fare.
Sembra così pesare su di esso un automatismo negativo che ha l´oggettività
dei fatti e non la volatilità delle interpretazioni. Di questi fatti ce
ne sono almeno tre, più uno.
Primo fatto: il vincolo della Corte Costituzionale. Ha detto la Corte: la
situazione di fatto non garantisce l´attuazione del pluralismo
informativo.
Perciò entro il 31 dicembre 2003 – data «definitiva, certa e non
prorogabile» – o si introduce la nuova televisione digitale (che
consente più canali) o l´attuale duopolio sarà drasticamente ridotto.
Per la legge, invece, la data diviene non più certa né definitiva e
viene prorogata con un nuovo periodo transitorio. In cambio la legge
promette in questo periodo l´inizio di una sperimentazione del sistema
digitale. Questo significherà, nella migliore delle ipotesi (documento
Rai) una copertura digitale pari al 50 per cento del paese. Nello stesso
documento la Rai chiede, però, investimenti per i contenuti dei nuovi
canali, l´aumento straordinario del canone, e incentivi per la diffusione
degli speciali decoder. Mancano tre mesi, il rimedio, ingegnoso, appare
potenziale. Significa che i programmi «agevolmente accessibili ad una
larga fascia di utenti» sono ancora una chimera. Un pluralismo
immaginario non sembra in grado di sanare il deficit attuale di
pluralismo.
Secondo fatto: il no delle autorità garanti delle comunicazioni e della
libera concorrenza. Ha detto Enzo Cheli: in Europa per capire come si
debbano valutare i limiti della quota di pubblicità da attribuire alle
televisioni, per evitare le posizioni dominanti, si fa riferimento al
cosiddetto «mercato rilevante». Che è quello dei «servizi di
diffusione radiotelevisiva per la trasmissione di contenuti agli utenti
finali». Per la legge, invece, il «mercato rilevante» non è solo
quello del settore televisivo e neppure quello della «comunicazione
elettronica». Esso comprende, invece: «Le imprese radiotelevisive e
quelle di produzione e distribuzione, qualunque ne sia la forma tecnica di
contenuti per programmi televisivo-radiofonici; le imprese dell´editoria
quotidiana, periodica, libraria, elettronica anche per il tramite di
Internet; le imprese di produzione e distribuzione, anche al pubblico
finale, delle opere cinematografiche; le imprese fonografiche; le imprese
di pubblicità, quali che siano il mezzo e le modalità di diffusione» .
Ha detto di tutto questo Giuseppe Tesauro: «estraneo al diritto della
concorrenza. un insieme di settori troppo eterogenei e non può costituire
un parametro antitrust per un´impresa». Non sono state valutazioni
discrezionali di giuristi illustri: ma atti dovuti di autorità
indipendenti, giudizi emessi in base a criteri europei, precisati in
direttive comunitarie: che hanno ora valore costituzionale nel nostro
ordinamento.
Terzo fatto: il giudizio degli editori di giornali. Rientra di diritto fra
i fatti istituzionali perché non è una corporazione a protestare ma un
soggetto essenziale di quel pluralismo dei media, così presente nelle
garanzie dell´Unione europea. Ma costante anche nella storia del nostro
ordinamento dell´informazione che ha sempre legato un braccio (almeno) al
gigante televisivo con la sua «abnorme capacità di raccolta
pubblicitaria». E con le sue imponenti risorse che, tra qualche anno, in
base alla legge, potranno essere libere di comprare la proprietà di
giornali...
Il terzo fatto più uno è il messaggio del presidente della Repubblica
del 23 luglio 2002. Chiedeva una legge di sistema e l´ha avuta. Ma
conteneva anche una serie di punti di riferimento: specialmente fissati
sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale e sull´attuazione delle
direttive comunitarie. Esso concludeva con la chiara affermazione: «Non c´è
democrazia senza pluralismo e imparzialità dell´informazione». Finito
il gran frastuono, sarà questo il parametro finale riassuntivo, come lo
fu al principio. In quella che gli americani usano chiamare «la
solitudine del presidente» .
Ecco allora che quando si sente circolare, anonimamente ma
significativamente, la frase «votazione di fiducia mascherata» ci si
chiede se veramente di tutto quello che era necessario si è tenuto conto
per evitare l´impasto tra politica «politichese», o addirittura
personale, e politica costituzionale.
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