Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 10,20.
(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva
sul disegno di legge C. 1825, recante disposizioni per la disciplina del settore
televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale, l'audizione di
rappresentanti di Mediaset.
Prima di dare la parola al dottor Confalonieri, presidente di Mediaset, informo
che la delegazione è composta dalla dottoressa Gina Nieri, consigliere di
amministrazione di Mediaset, dal dottor Andrea Ambrogetti, direttore delle
relazioni istituzionali, e dal dottor Mauro Crippa, direttore delle
comunicazioni.
Do quindi la parola al presidente di Mediaset, dottor Confalonieri.
FEDELE CONFALONIERI, Presidente di Mediaset. Ringrazio il presidente Meta, il presidente Folena e tutti i parlamentari presenti per avermi dato la possibilità di illustrare la posizione di Mediaset sul disegno di legge Gentiloni.
Parto da una breve presentazione di Mediaset nei suoi numeri e nelle attività
più significative, per poi passare alle nostre critiche al progetto
governativo, che viviamo come punitivo per la nostra azienda e incapace di
aprire e sviluppare il settore, così come si propone, ma capace invece di
mortificare la ricchezza dell'offerta tipica della televisione terrestre,
l'unica gratuita, la piattaforma universale del servizio televisivo in Italia,
diffusa al 99 per cento delle famiglie.
Tutto quanto dirò in questa mia relazione è sviluppato per esteso nel
contributo scritto che consegneremo alle Commissioni.
Carta d'identità: i dati principali. Mediaset è il maggior gruppo televisivo
commerciale del paese, che gestisce l'offerta di televisione free
commerciale analogica e digitale in Italia e Spagna (con il 50 per cento di
Telecinco). È quotata alla Borsa di Milano dal luglio 1996. Il suo capitale è
posseduto per il 35,54 per cento dal Gruppo Fininvest. Il capitale flottante,
pari a circa il 65 per cento del totale, è per la metà in mani straniere,
soprattutto fondi americani.
Dall'ultima distribuzione del dividendo risulta che siano ancora oltre 250 mila
i piccoli investitori di Mediaset. I ricavi netti dell'anno 2005 sono 3.678
milioni di euro, al 30 settembre 2006 2.672,5 milioni. Per quanto riguarda
l'esercizio 2005, 2.748,1 milioni di euro sono di pertinenza della televisione
italiana; il resto proviene dal consolidamento di Telecinco. Al 30 settembre
2006 sono stati investiti 1.137 milioni di euro, di cui 745,8 in diritti.
I dipendenti del gruppo sono oltre 4.681 al 31 dicembre 2006, con un indotto
diretto di oltre 3.500 persone circa.
L'audience media totale delle reti analogiche di Mediaset nel 2006 è del
40,3 per cento. Oltre il 48 per cento delle ore emesse è di autoproduzione,
sono 5 mila le ore di informazione prodotte in un anno.
La quota di risorse di Mediaset sul totale mercato televisivo (includendo
pubblicità, canone, proventi da abbonamenti alle pay-TV) è per il 2006
del 30 per cento, 35 per cento per la Rai e 25 per cento per Sky.
La quota di fatturato sul totale mercato pubblicitario televisivo nel 2006 è il
56,7 per cento (ricavi al netto delle agenzie, quindi il lordo è più alto).
Mediaset ha investito nel digitale terrestre oltre 1,2 miliardi di euro, di cui
500 milioni per frequenze e digitalizzazione, il resto in diritti.
Nel 2006 ha destinato 950 milioni di euro all'acquisto e alla produzione di
programmi audiovisivi europei, e di questi circa 80 milioni sono per film
prodotti in Europa (67 in Italia). Parte rilevante dell'investimento in opere
europee è destinata a prodotti nazionali (circa 220 milioni di euro solo per le
fiction).
Alla tradizionale attività delle reti storiche, dal 2003 Mediaset opera con
successo nella trasmissione di contenuti digitali. Ha creato tre multiplex
digitali, di cui uno interamente destinato alla televisione in mobilità in standard
DVBH. Sono stati lanciati due canali gratuiti solo digitali, Mediashopping e
Boing, quest'ultimo interamente dedicato ai bambini.
Mediaset ha lanciato nel gennaio 2005 un'offerta di servizi a pagamento con
carta prepagata, che consentono la visione di eventi principalmente di sport e
di cinema. Le tessere vendute per i servizi Premium al 31 gennaio 2007 sono
2.686.726 contro 5.807.518 ricariche, con un fatturato complessivo di 177,4
milioni di euro di cui 89 nel 2006.
Mediaset versa poi 22,2 milioni di euro per canone di concessione, 4 milioni di
euro circa per il mantenimento dell'Agcom, 55 milioni di euro alla SIAE per
diritti d'autore, 16 milioni di euro a SIAE e IMAIE per l'equo compenso e 3
milioni di euro all'AFI.
Molto attiva è la presenza del Gruppo anche in iniziative di formazione, che
vedono la realizzazione di tre master annuali: due con il consorzio IULM,
in management multimediale e in giornalismo, l'altro, quello di marketing,
di Publitalia, attivo dal 1988. Completano il quadro il laboratorio di
comunicazione e nuovi contenuti RTI, la scuola di televisione tesa a formare
figure specifiche della creatività televisiva, il laboratorio di ricerca del
linguaggio televisivo.
In questi dati ho segnato il perimetro di un'azienda di successo, che ha saputo
conservare il core business, ma innovarsi profondamente con l'entrata
nell'era digitale. Un'azienda profittevole, con alta occupazione molto
specializzata, un indotto concentrato in settori strategici per l'audiovisivo,
un impatto virtuoso ed irrinunciabile sulla produzione nazionale, un potente
aiuto per le imprese italiane, un'abitudine per il pubblico.
Nello stesso tempo, si tratta di un'azienda parte integrante del cambiamento che
sta coinvolgendo l'intero sistema di media e telecomunicazioni, in cerca di un
posizionamento nuovo, trasversale alle diverse piattaforme tecnologiche, ancora
quasi completamente finanziata da pubblicità e per questo maggiormente esposta
ai vincoli normativi di quanto non succeda ad aziende con risorse diversificate.
Un'azienda fortemente ancorata all'ambito nazionale di due paesi europei, Italia
e Spagna, ma fuori, per il fattore linguistico, dall'immenso bacino di lingua
anglosassone. Un'azienda grande in Italia, media però se comparata con i gruppi
mondiali di
televisione o con i mercati televisivi e pubblicitari degli altri paesi.
Un'azienda, per finire, che ha investito moltissimo in tecnologie ed è stata
alla testa mondiale di due iniziative esclusive: la televisione sul telefonino
in tecnica DVBH (usando cioè le frequenze televisive) e l'offerta di eventi in pay
per view, tramite l'utilizzo della carta prepagata.
Non vi è dubbio che un cambiamento del quadro normativo, così drammatico quale
è quello ipotizzato dal disegno di legge Gentiloni, sarebbe in grado di
sconvolgere l'assetto di riferimento attuale, togliendo all'azienda le
sicurezze, anche normative, di cui ha profondamente bisogno.
Passando ai rilievi al disegno di legge, partirei dalla relazione. Il primo
riguarda l'incompletezza e strumentalità dei riferimenti alla giurisprudenza
costituzionale, alle leggi esistenti e all'Europa. Si omette, ad esempio, il
costante richiamo della Corte al nesso stretto tra livello di antitrust e
sviluppo tecnologico presente nel settore televisivo. Altro fatto importante, la
legittimità di leggi e situazioni di mercato rilevata dalla Corte, che copre
tutte le leggi fino alla fine del 2003.
Impossibile, pertanto, continuare a parlare dell'ambito normativo italiano come
di una selva indisciplinata dove ha prevalso la legge del più forte o quella
dei fatti compiuti; impossibile, altresì, parlare di una giurisprudenza
costituzionale sempre contraria alle norme approvate, tutte invece, Maccanico
compresa, chiaramente legittimate dalla Corte.
L'analisi della giurisprudenza costituzionale permette di smentire la tesi
secondo cui il sistema televisivo italiano si caratterizzerebbe per una
situazione di perdurante deficit di pluralismo, corrispondente ad una protratta
violazione del dettato costituzionale. La Corte, infatti, ha affermato la
legittimità delle discipline transitorie via via succedutesi, dal 1990 al
2003, e mai ha imposto soluzioni che comportassero il rischio di dispersione di
risorse di impresa.
La Corte ha attribuito, invece, al legislatore il compito non di punire imprese
esistenti per favorire il pluralismo, bensì di sfruttare al massimo le
possibilità offerte dall'evoluzione tecnologica, in modo che il pluralismo sia
conseguenza dell'aumento delle voci presenti e non della loro soppressione.
La stessa cosa dicasi per i riferimenti alle Autorità di garanzia. Si continua,
ad esempio, a citare l'indagine Antitrust del 2004 sul mercato pubblicitario;
niente si dice, invece, delle pronunce dell'Autorità che hanno seguito
l'approvazione della legge n. 142 del 2004 e gli sviluppi del sistema televisivo
negli ultimi tre anni.
Citiamo le autorizzazioni all'acquisto di frequenze per il digitale da parte di
RTI, approvate dall'Antitrust con il parere positivo dell'Agcom,
l'autorizzazione all'acquisto da parte di RTI delle frequenze di Europa TV per
dedicarle alle trasmissioni della TV mobile con standard DVBH.
Tale delibera è basata sulla constatazione di quote di frequenza in mano a Rai
ed RTI lontane dalla dominanza e sull'accertata presenza nel paese di un bacino
di frequenze locali ancora ricco, a disposizione degli altri operatori
interessati al trading.
Pragmaticamente, nel caso di istruttorie (vedi i diritti del calcio) dove alcune
condotte di mercato rischiavano di alterare la concorrenza, l'Antitrust ha
condiviso i comportamenti di RTI sulla base dell'assunzione, da parte degli
operatori, di impegni capaci di rimuovere i rischi anticompetitivi: è il caso
di RTI e i diritti sportivi, dove Agcom e AGCM hanno accettato gli impegni
spontaneamente assunti da RTI durante l'istruttoria e relativi a durata dei
contratti e cessione al mercato dei diritti di piattaforme fuori dalla
disponibilità di Mediaset.
L'Agcom è intervenuta, quindi, incisivamentre sulla base delle leggi esistenti
ogni volta che se ne sia ravvisata la necessità. Dopo la legge del febbraio
2004, ha certificato l'esistenza delle condizioni di legge per l'applicazione
del nuovo antitrust misto, analogico e digitale; ha chiuso l'istruttoria sulle
posizioni dominanti nel 2005, non ravvisandone il verificarsi, ma rilevando che
esistevano i rischi di riproposizione degli assetti dell'analogico nel nuovo
ambiente digitale.
A correzione di possibili rischi per il pluralismo, ha approvato la delibera n.
136 del 2005, in cui impone a Rai e Mediaset obblighi in ordine allo sviluppo
della rete digitale, all'affollamento e alla raccolta pubblicitaria delle nuove
trasmissioni in digitale terrestre.
Da ultimo, la recente delibera, sottoposta a consultazione pubblica e relativa
alla disciplina della cessione del 40 per cento di capacità trasmissiva da
riservare a terzi, calcolata su ciascun multiplex.
La delibera punta all'esclusione della discrezionalità dell'operatore TV nella
scelta dei programmi da trasportare, rendendo aperto e disponibile uno spazio
utile per le trasmissioni ai terzi. Una reale misura di abbassamento delle
barriere all'ingresso per gli editori terzi che, concretamente e velocemente,
ottengono la disponibilità del servizio di distribuzione della loro offerta
televisiva.
Molto più incisiva ci pare questa direzione rispetto a quella scelta dal
disegno di legge, con l'ipotizzata restituzione delle frequenze da parte di Rai
e Mediaset e la loro ridistribuzione a terzi nuovi entranti.
Erronei appaiono i presupposti richiamati nella relazione e relativi alla messa
in mora dello Stato italiano sulla disciplina delle frequenze. Di per sé una
lettera di messa in mora non comporta l'obbligo di modifiche normative. È una
scelta
politica quella che ha portato l'attuale Governo a non difendere il diritto
italiano, a non rappresentare correttamente la situazione presente nel paese e
alla fine a condividere pedissequamente i rilievi europei.
Alla fine, l'Europa è stata usata strumentalmente laddove offriva pretesto per
intervenire con una nuova legge.
Alcune osservazioni sulla lettera di messa in mora. Prima di tutto, l'Europa
ignora la natura transitoria delle norme già esistenti su frequenze e switch-off.
Queste sono tese a: velocizzare la transizione; pianificare frequenze e reti
digitali; consentire l'accesso di nuovi fornitori di contenuti a reti digitali
aperte, gestite da operatori di rete, con funzioni di carrier per il
trasporto del segnale altrui; reperire tramite il trading delle frequenze
gli spazi necessari alla transizione.
Qui va ricordato che il trading introdotto dalla legge n. 66 del 2001 era
l'unica soluzione possibile e pragmatica per reperire le frequenze necessarie
alla transizione, in uno spettro elettromagnetico già pienamente utilizzato.
Non è corretta poi la tesi secondo la quale nuove imprese non potrebbero
accedere alle frequenze. Ciò è consentito attraverso i consorzi possibili tra
editori di prodotti multimediali che possono acquisire impianti come operatori
di reti digitali o attraverso l'ottenimento, aperto a tutti, di una licenza di
operatore di rete che di nuovo abilita all'acquisto di impianti. Questa è la
strada utilizzata da H3G per la creazione dell'infrastruttura DVBH per la TV mobile.
Infine, va ricordato che per le leggi vigenti in Italia chiunque può acquisire
la titolarità di un'impresa televisiva subentrando alla quota di proprietà
dell'emittente: è la strada attraverso la quale L'Espresso, Telecom Italia
Media, il gruppo Ben Ammar/TF1 hanno potuto divenire proprietari di reti TV
nazionali analogiche preesistenti.
Sul reale stato delle frequenze del paese, sulla numerosità delle stesse e
sulle quote di frequenze in possesso ai diversi operatori (locali compresi, che
ne hanno più del 50 per cento), si fa riferimento alla memoria illustrata
davanti alla Commissione da Elettronica Industriale, l'operatore di rete di
Mediaset.
Un'ultima osservazione riguarda il totale misconoscimento del valore di
facilitazione dell'accesso alle reti per soggetti terzi, contenuto nell'obbligo,
in capo agli operatori con più di due reti analogiche, di cedere loro il 40 per
cento della capacità trasmissiva, ottenuta digitalizzando le frequenze.
La farraginosità dei meccanismi che presiedono alla «confisca»-redistribuzione
delle frequenze, l'assenza di norme che governino la pianificazione delle
frequenza stesse, fanno sì che il disegno di legge fornisca all'Europa, pur
condividendone i rilievi, una risposta fiacca e inefficiente, oltre che punitiva
degli interessi degli operatori attuali.
Venendo al contenuto del disegno di legge nei suoi principi generali e nel suo
articolato, esso parte dal presupposto non corretto, a nostro avviso, che negli
ultimi anni il sistema televisivo sia rimasto congelato nella staticità del
duopolio, a tutto danno di concorrenza e pluralismo e dell'accesso di nuovi
protagonisti nell'offerta televisiva.
Questo presupposto giustificherebbe il contenuto pesante e punitivo della
proposta governativa, presentata come necessaria per lo sviluppo tecnologico
foriero di maggior competitività.
Vale la pena anzitutto sottolineare come il duopolio televisivo abbia da tempo
lasciato spazio ad una situazione caratterizzata da tre soggetti - Mediaset,
Rai, Sky -, che sul mercato delle risorse televisive complessive, a fine
dell'anno prossimo, avranno ognuno un terzo dei fatturati.
A nostro avviso non c'è bisogno di una nuova legge, perché le leggi attuali
consentono già di puntare alla rapida digitalizzazione della televisione
terrestre. Al riguardo, sembra quantomeno contraddittorio nel disegno di legge
lo spostamento della data dello switch-off al 2012: per sviluppare un
processo se ne ritarda la conclusione!
Alcune altre osservazioni. La diversificazione delle nuove piattaforme e
delle modalità di visione dei contenuti video (digitale terrestre, satellite,
cavo, TV mobile e IPTV) accelera di per sé il confronto della
televisione tradizionale con i nuovi player e intensifica, quindi, le
dinamiche concorrenziali.
Già da oggi è innegabile l'apertura del settore televisivo a nuovi soggetti:
H3G, Vodafone, Telecom tramite il DVBH offrono contenuti televisivi ai clienti
telefonici, usando frequenze terrestri; ReteA e Telemarket sono confluiti in
gruppi come L'Espresso e Telecom Italia Media; si sono costruiti dieci multiplex
digitali terrestri, che ospitano oggi quasi 30 canali, simulcast delle
reti analogiche compreso.
Con l'attuazione della delibera Agcom, relativa alla cessione del 40 per cento
delle frequenze digitalizzate, ci sarà un nuovo impulso alla presenza di
editori nuovi entranti nella televisione. Da sottolineare che, nel caso di
cessione della capacità trasmissiva, il servizio di trasporto del segnale
offerto ai fornitori di contenuti è completo e non richiede investimenti
aggiuntivi, ma è ottenuto a prezzi di mercato assolutamente competitivi.
Quanto alla costituzionalità del disegno di legge, si rileva come uno dei
principi fondamentali della correttezza costituzionale delle norme sia quello
della validità erga omnes dei contenuti, della generalità dei contenuti
stessi, della necessarietà
e della ragionevolezza delle norme, soprattutto quando la legge abbia le
caratteristiche di concretezza tipiche di un provvedimento amministrativo.
A nostro vedere, il disegno di legge si caratterizza come una
legge-provvedimento palesemente mirata ad infliggere danno al gruppo Mediaset.
In particolare, mira ad impoverirlo: sottraendogli risorse pubblicitarie di cui
nessun altro beneficerà; imponendo la migrazione al digitale di una rete in
tempi non omogenei con lo switch-off generale e senza un ancoraggio alla
diffusione minima dei decoder, in più senza meccanismi in grado di
assicurare un utilizzo più efficiente delle frequenze così liberate.
Ridefinisce poi in modo arbitrario il SIC, tanto da avvicinarne in maniera
sospetta il limite alle dimensioni attuali di Mediaset.
L'inflizione di un danno non fondato su concreti interessi pubblici è
incompatibile, a nostro avviso, con i due principi di uguaglianza e libertà
d'impresa, costituzionalmente protetti (articoli 3 e 41).
Un altro passaggio è opportuno sulla rispondenza del disegno di legge ai
principi comunitari. Quando nella proposta si parla di puntare «ad una più
equa distribuzione delle risorse economiche» e si mira a dirottare risorse da
un soggetto ad un altro, si va in aperto contrasto con l'articolo 49 del
trattato della Commissione europea a proposito di libera prestazione dei
servizi.
L'articolo 2 ritaglia «su misura» per Mediaset un'inedita presunzione
insuperabile di dominanza delle imprese che superino il 45 per cento dei ricavi
pubblicitari televisivi; ciò fino al termine dello switch-off.
La norma, sospetta anche di incostituzionalità, non si basa su un'analisi dei
mercati rilevanti condotta secondo adeguati criteri economici, bensì sulla
predefinizione normativa di un
mercato - quello della pubblicità televisiva - e sull'individuazione di una
soglia massima di ricavi, determinata in via del tutto discrezionale, a
prescindere da qualsiasi valutazione dell'effettivo potere di mercato dei
diversi soggetti.
L'indicazione per via legislativa di un tetto di fatturato pubblicitario, che
equivale a posizione dominante vietata, è estranea ad ogni logica antitrust.
L'applicazione della disciplina antitrust deve fondarsi su considerazioni
tecniche, non politiche, sulla situazione economica del mercato e sulla
necessarietà, per salvaguardare l'interesse pubblico, di limitazioni alla
libertà di impresa.
Per questo esistono autorità indipendenti con il compito di accertare
l'esistenza di posizioni dominanti lesive di concorrenza e pluralismo e
reprimere eventuali abusi di potere di mercato.
Le direttive Telecom, poi, per prevenire abusi di posizione dominante,
impediscono di imporre misure ex ante fuori da specifiche analisi di
mercati rilevanti. Le autorità Agcom e AGCM dispongono già di poteri
pragmatici e regolamentari in tal senso.
La proposta governativa, assegnando alla legge interventi già rimessi
dall'ordinamento nazionale e comunitario alle autorità amministrative, compie
una forzatura di dubbia legittimità.
Un rilievo necessario riguarda la possibilità concreta, da parte delle singole
aziende, di osservare il tetto del 45 per cento. Sino alla certificazione a fine
anno dei fatturati delle altre imprese, non è dato conoscere su quale base
debba essere calcolata la soglia invalicabile del 45 per cento e di questo
Gentiloni non si cura.
Non esiste, poi, alcun elemento di fatto che permetta di raccordare
l'imposizione di una soglia del 45 per cento ai
fatturati pubblicitari televisivi con l'esigenza di salvaguardia di
pluralismo e concorrenza. Si è detto in ambiti governativi che il 45 per cento
non costituisce una soglia al fatturato e che i rimedi proposti (abbassamento
dell'affollamento pubblicitario e/o spostamento di una rete su piattaforma
digitale) non bloccano i fatturati delle imprese. Non è vero: la formulazione
prescelta dalla legge, che individua nel raggiungimento del 45 per cento del
fatturato pubblicitario una posizione dominante vietata, ai sensi dell'articolo
43 del testo unico della radiotelevisione, va invece nel senso di rendere
definitivamente insuperabile tale tetto.
Nel caso in cui riduzione dei fatturati e spostamento di una rete al digitale
lasciassero un soggetto al di sopra della soglia considerata vietata, l'Agcom
sarebbe obbligata a disporre ulteriori misure anticoncentrative, senza poter in
tal caso esercitare la discrezionalità che le è propria nell'individuare
l'effettiva esistenza di posizioni dominanti. E non è dato capire se Agcom sia
addirittura obbligata ad intervenire prima e indipendentemente dall'applicazione
delle misure.
Per quanto riguarda la tutela della concorrenza, il disegno di legge non spiega
quali siano le carenze normative che rendono necessario un ulteriore intervento
di legge. Il risultato, poi, che la norma ipotizzata porterebbe - quello cioè
della riduzione del mercato e dell'aumento dei prezzi - è quanto di più
contrario allo spirito della concorrenza.
Si invoca anche la necessità del tetto al fatturato ai fini di salvaguardia del
pluralismo. È assolutamente indimostrato l'automatismo «parcellizzazione
maggiore dei fatturati uguale ad aumento del pluralismo». Di per sé limitare i
fatturati di Mediaset non crea necessariamente le condizioni per l'entrata
sul mercato di altri soggetti in grado di proporre reti e programmi al
livello di quelli offerti attualmente dalla stessa Mediaset.
A proposito di pluralismo, esiste un ulteriore grado di collisione del disegno
di legge con la normativa comunitaria. Si parla di «consolidare la tutela del
pluralismo» senza dare elementi utili per definire e misurare il pluralismo
stesso. Un recente documento della Commissione europea arriva alla conclusione
dell'assenza di nozioni comuni di pluralismo nei diversi paesi dell'Unione e fa
scaturire da questo un piano d'azione volto ad accertare entro l'anno gli
indicatori concreti per misurarlo.
Il disegno di legge parte da un presupposto apodittico - l'assenza di pluralismo
- e, non offrendo indicazioni per valutarlo, si espone alla fondata censura di
sproporzione delle misure adottate per ripristinarlo.
Nel quadro comunitario, sono diversi i diritti considerati fondamentali che è
necessario garantire negli ordinamenti nazionali. Va ricordato che l'articolo 11
della Carta europea dei diritti fondamentali include tra questi non solo il
principio del pluralismo, ma anche quello della «libertà dei media»
che, a nostro avviso, viene irragionevolmente conculcato dal disegno di legge.
L'inclusione delle telepromozioni negli affollamenti orari anziché giornalieri
è norma che collide con la direttiva «Televisione senza frontiere» e con la
revisione della stessa in corso a Bruxelles.
Come si dirà meglio più avanti, il sacrificio delle telepromozioni
arrecherebbe un danno certo a Mediaset, agli investitori, al mercato, ma nessuno
ne godrebbe: non i broadcaster;
non gli utenti pubblicitari, privati di una forma piacevole di pubblicità;
non i consumatori, che si troverebbero con un'offerta televisiva sempre più
povera.
Una considerazione generale: impedire di fatto forme di pubblicità più
creativa e moderna porterà sempre di più certe tipologie di prodotti (film,
sport, programmi per bambini) ad essere appannaggio esclusivo della pay-tv,
con l'assurdo di un danno fortissimo per il consumatore finale, obbligato dalla
legge, per godere di questi programmi, ad indirizzarsi alla televisione «per
ricchi».
L'articolo 3 del disegno di legge prevede diverse modalità di «liberazione»
delle frequenze televisive, prima fra tutte lo spostamento su piattaforma
digitale di reti Rai, Mediaset e Telecom Italia Media. Pare di riconoscere
nell'ipotesi di legge una tardiva riedizione dello schema anticoncentrativo
della legge Maccanico, basato sul presupposto erroneo dell'esistenza di reti
eccedenti.
In un contesto digitale, il riferimento al numero delle reti analogiche come
misura del potere di mercato di un gruppo televisivo non ha alcun senso. Quello
che succederebbe, soprattutto in mancanza di un ancoraggio, per lo spostamento,
all'effettiva penetrazione dei decoder digitali terrestri, sarebbe un
ingiustificato e dannoso impoverimento del sistema televisivo, in generale, ed
in particolare della televisione di tutti, quella gratuita.
Incondivisibile totalmente è la presunzione che la restituzione di frequenze
analogiche possa costituire scorta per l'entrata di nuovi soggetti e condizione
per l'abbassamento delle barriere all'ingresso del settore televisivo.
Più o meno l'iter sarebbe il seguente: si spostano le reti analogiche sul
digitale, si assegnano le frequenze così liberate a nuovi soggetti analogici e,
di lì a tre anni, lo standard
analogico spira. Chi ripaga gli eventuali entranti di alti costi e tempi
lunghi necessari all'approntamento della rete di impianti per la diffusione dei
nuovi contenuti? Senza contare i rilevanti investimenti necessari per offrire un
palinsesto appetibile. Quando tutto fosse pronto, anche la data più lontana di switch-off
sarebbe alle porte. Quindi, si tratta di una norma punitiva per gli operatori
esistenti, per gli utenti, ma insieme totalmente inefficace rispetto alla
richiesta europea relativa alla redistribuzione delle frequenze.
Altra mancanza che colpisce è l'assenza di qualsiasi riferimento ad un'attività
di pianificazione e alle procedure sulla futura assegnazione delle frequenze
liberate. L'esclusione di Rai, Mediaset e Telecom Italia Media dal trading
delle frequenze costituisce un ingiustificato ostacolo al completamento della
copertura dei multiplex digitali. Questo con il doppio effetto negativo
di lasciare parte dell'utenza televisiva fuori dall'offerta digitale e
compromettere gli investimenti altissimi per la digitalizzazione, sopportati
dalle emittenti sulla base di precedenti leggi dello Stato (legge n. 66 del
2001).
Vengono poi resi più onerosi i limiti anticoncentrativi nel settore digitale.
Il limite alla capacità trasmissiva in capo ad ogni soggetto, l'equiparazione
dei servizi pay per view ai «canali» utili per il calcolo
dell'antitrust, sono ambedue misure non necessarie, capaci invece di deprimere
l'innovazione e di ridurre l'offerta per i consumatori.
È evidente che, se questa norma fosse legge, Mediaset sarebbe posta
nell'impossibilità di continuare ad offrire il servizio Mediaset Premium
(eventi pay con carta prepagata), che costituisce, oltre che l'unica
alternativa all'abbonamento Sky, un vantaggio per l'utente che può avvicinarsi
ad un'offerta pay a prezzi flessibili.
La norma ipotizza la creazione di un'«Auditel di Stato», di cui sfuggono
totalmente le motivazioni; né basta, a condividerne l'ipotesi, la definizione
dell'attività di rilevazione dei dati d'ascolto come «servizio di interesse
generale».
Il nostro servizio di rilevazione è agli standard tecnici più elevati
d'Europa. La società cui è affidata la ricerca di base è la stessa che svolge
uguale servizio nel Regno Unito.
La composizione del capitale, che vede in posizione di rilievo l'associazione
degli utenti pubblicitari (UPA), è tale da garantire l'obiettività dei sistemi
di controllo. Vi è poi di già - a seguito delle delibere dell'Agcom n. 85 del
29 maggio 2006 e n. 13 del 28 luglio 2006 - una sorta di corporate governance
imposta all'Auditel stessa, in forza della quale un rappresentante dell'Agcom
siederà nel comitato tecnico Auditel.
Questo, unito alla sorveglianza sulle rilevazioni che già la legge n. 249
affida all'Agcom, dovrebbe essere garanzia sufficiente di obiettività, pur nel
mantenimento di un assetto privato dell'Auditel stessa.
Esiste, comunque, assoluta disponibilità da parte di Mediaset ad accogliere in
seno al consiglio di amministrazione di Auditel i suggerimenti e le
sollecitazioni che l'Agcom ritenga di rivolgere ai fini di una maggior garanzia
di tutti, utenti, investitori pubblicitari, imprese.
Contrariamente alle bandiere sventolate contro, il SIC sopravvive con nome
cambiato e con una pesante riduzione delle voci che lo compongono. Si è parlato
tanto dell'inutilità del SIC, della necessità di sopprimerlo, ma, se serve a
costituire un ulteriore paletto alle risorse delle aziende, ben venga anche nel
disegno di legge Gentiloni.
Si chiama «settore delle comunicazioni» e non contiene più le «iniziative di
comunicazione di prodotti e servizi», pari a 3.494 milioni di euro nel 2005, un
15,7 per cento sul totale.
Come dire: «SIC, purché piccolo, è bello!». Grazie a questa operazione,
infatti, il totale delle risorse da 22,2 miliardi di euro passa a 18,7 miliardi
di euro, con una quota del 20 per cento sul totale, che guarda caso è
vicinissima - 3,7 miliardi di euro - alla quota Fininvest attuale (3,6 miliardi
di euro).
Da rilevare anche la rimozione dell'asimmetria che consentiva a Telecom solo una
quota del 10 per cento, contro il 20 per cento di tutti gli altri, e la
sostituzione a questa di una norma che vieta all'ex monopolista «situazioni di
collegamento o controllo verso imprese in posizione dominante nel settore
televisivo». Un bel vantaggio concorrenziale per l'ex monopolista delle
telecomunicazioni, a cui, a differenza delle televisioni, i limiti vengono
tolti.
Lasciando ad un momento successivo le considerazioni di analisi economica,
partirei senza infingimenti dalla quantificazione degli impatti su Mediaset del
disegno di legge, capaci di mettere a rischio fino ad un terzo dei nostri
fatturati. Gentiloni dice che questa è un'iperbole: non è così, facciamo un
po' di conti.
Vediamo di seguito la quantificazione economica dei danni per Mediaset
provenienti dall'applicazione delle misure previste nel disegno di legge:
partirei con l'esaminare l'obbligo per i gruppi televisivi di rimanere al di
sotto della soglia dominante vietata del 45 per cento del fatturato
pubblicitario televisivo. Per come la norma è scritta, al di là di ambigue
interpretazioni dell'ultima ora, il dato è chiaro: indipendentemente dai rimedi
suggeriti per legge, la soglia del 45 per cento è invalicabile, pena misure
deconcentrative immediate da parte dell'Agcom. Portare Mediaset al di sotto del
45 per cento significa meno 600 milioni di euro di fatturato. Il calcolo è
molto semplice. Prendiamo un dato medio di presenza Mediaset sul mercato
pubblicitario televisivo del 60 per cento sul totale; applicando
una semplice proporzione tra i dati (60:100 = 45: X) il risultato è 75, il
che significa meno un quarto dei nostri fatturati.
A causa del calcolo delle telepromozioni nell'affollamento orario sono a rischio
200 milioni di euro. Tanto più inaccettabile questa misura quando l'Europa,
anche nella nuova direttiva in discussione, non tocca le telepromozioni. Con un decalage
di due punti dell'affollamento orario, se si supera il 45 per cento di
fatturato pubblicitario televisivo, avremo circa 300 milioni di euro in meno.
Con il trasferimento di una rete su piattaforma digitale perderemo 350-400
milioni di euro. Si indica l'intero fatturato di Retequattro perché, con lo
stop dato dal Governo alla transizione digitale, non sarà possibile recuperare
granché dall'emissione in digitale della rete stessa.
È evidente che non avrebbe senso parlare di un danno uguale al risultato
aggregato di queste diverse voci, tuttavia, nelle diverse combinazioni delle
misure previste, anche di tipo temporale, il danno risultante dall'applicazione
dei rimedi, anche se disaggregato, raggiunge sempre 7-800 milioni di euro. E dai
conti abbiamo escluso l'impatto negativo di frequenze restituite, quali asset
più o meno espropriati, e l'impossibilità di continuare l'offerta pay
(altri 80 milioni di euro a valori 2006).
Tornando al 45 per cento come posizione dominante vietata e analizzandola in
termini antitrust, l'imposizione di un tetto invalicabile alla raccolta
pubblicitaria rappresenta una misura contraria ai principi di promozione e
tutela della concorrenza. Anche preventivamente alla posizione assunta dal
presidente Catricalà nella recente audizione, la giurisprudenza e i principi a
base della concorrenza sono totalmente «contrari a misure che fissino tetti
alle quote di mercato e freni alla possibilità di espansione delle imprese»,
perché tali tetti «possono congelare il mercato e avere effetti in termini di
efficienza»
e farlo pone «ostacoli ingiustificati alla crescita dell'impresa la cui
quota dipende oltre che dai comportamenti delle aziende, dall'evoluzione del
mercato e dalle scelte delle imprese concorrenti».
Si va poi totalmente fuori strada quando, per analizzare la concorrenza di un
dato settore, si consideri solo un versante (quello pubblicitario), mentre
Mediaset agisce in concorrenza con gli altri operatori (satellite in testa) su
un altro versante, quello delle audiences.
Il ruolo dell'editore televisivo è quello di mettere in contatto, tramite il
palinsesto, da una parte i telespettatori, dall'altra i produttori di contenuti.
La remunerazione dell'attività televisiva classica avviene sotto forma di
canone per la televisione pubblica, di introiti pubblicitari per la televisione
commerciale.
Con l'avvento della pay-TV, i ricavi della televisione, oltre che dagli
investitori pubblicitari, hanno iniziato a scaturire dal versante dei
telespettatori. Questo impone di riconsiderare i confini del mercato rilevante
per la televisione ai fini antitrust e di inserire nelle risorse utili al
calcolo quelle derivanti da tutte le relazioni esistenti sui diversi versanti.
Sia nel caso della free TV, dove i ricavi vengono da pubblicità e
canone, sia in quello della pay-TV, in cui i ricavi vengono
principalmente dalle sottoscrizioni, l'attività degli editori è volta
essenzialmente ad attirare il più alto numero di telespettatori (l'audience).
Questo impone una definizione del mercato rilevante che tenga conto dell'intero
ammontare delle risorse televisive.
Porre vincoli solo sul versante pubblicitario (il tetto del 45 per cento) per
imprese che operino su un mercato a più versanti, determina significative
distorsioni al funzionamento del mercato, quali la riduzione degli investimenti
pubblicitari
effettuati sul mezzo televisivo, l'incremento del prezzo per contatto
praticato agli inserzionisti, la riduzione del volume delle transazioni.
L'essenza del mercato televisivo come «mercato a più versanti» ha come
diretta conseguenza per l'antitrust la necessità di considerare tutte le
risorse che gli operatori utilizzano per assicurarsi il tempo di attenzione del
pubblico, quindi, ad oggi, pubblicità, canone, abbonamenti alla pay-TV.
L'entrata di nuove imprese televisive su piattaforma terrestre analogica è
estremamente improbabile e il disegno di legge non determina condizioni idonee a
superare la naturale concentrazione del mercato televisivo e favorire nuovi
ingressi. Molto più probabile, invece, che il disegno di legge, ritardando il
pieno sviluppo del digitale terrestre, ostacoli il debutto di nuove imprese
televisive e diminuisca il grado di pluralismo esistente nel sistema. In tal
senso vedi la mancata fruizione da parte di molti utenti non digitali delle reti
spostate dall'analogico fino allo switch-off totale. Sicuramente il
maggior beneficiato della proposta governativa è Sky, che può operare senza
limiti nella raccolta pubblicitaria.
Vale la pena di sfatare l'ancora sbandierata opportunità di incremento dei
fatturati pubblicitari stampa, a seguito di un taglio alle risorse di Mediaset.
Sono trent'anni che FIEG sostiene questa tesi e trent'anni che è incapace di
dimostrarla, mentre la realtà del mercato e la dimostrata non sostituibilità
dei mezzi televisivi e stampa portano a pensare che effetti depressivi sul
versante della raccolta televisiva, prodotti dal disegno di legge, non
comportino un innalzamento degli investimenti sulla stampa.
Di conseguenza si rileva la non efficacia del disegno di legge sull'aumento
delle risorse stampa.
Un ulteriore effetto negativo del disegno di legge si ripercuote sui diversi
mercati collegati alla televisione. La forte limitazione dei ricavi di Mediaset
comporta, innanzitutto, una riduzione delle sue disponibilità a mantenere gli
attuali alti livelli di investimento, con effetti depressivi sulle produzioni
italiane ed europee (si ricordano gli investimenti di Mediaset in fiction
pari a 220 milioni di euro nel 2006 e gli 80 milioni di euro in film italiani ed
europei).
Il disegno di legge contribuisce a creare un ambito economico giuridico incerto,
non favorevole all'adozione di piani di investimento rischiosi e innovativi da
parte delle imprese. Ciò si traduce nel rallentamento della crescita economica
e in ostacolo all'occupazione del settore. Pensiamo anche alla credibilità
della nostra azienda e del nostro paese presso gli stranieri che di Mediaset
posseggono oltre il 50 per cento del capitale flottante.
L'ultima parte di questo intervento contiene un'analisi del mercato televisivo
europeo, dell'evoluzione dell'offerta multicanale e multipiattaforma e l'esame
del ruolo dei broadcaster nella transizione; in ultimo i vantaggi, per
concorrenza e pluralismo, di una veloce transizione al digitale.
In ciascuno dei cinque principali paesi europei, l'assetto del mercato
televisivo presenta aspetti simili, ma anche e soprattutto profonde diversità e
caratteristiche singolari o di unicità. L'analisi comparata fra le quote di
mercato dei diversi operatori dovrebbe dunque tener conto di queste
caratteristiche peculiari che riguardano, ad esempio, il ruolo sul mercato
pubblicitario dell'operatore di servizio pubblico, la numerosità dei canali
nazionali e locali distribuiti su rete terrestre, il grado di diffusione delle
abitazioni che ricevono il segnale in tecnica digitale, il tipo di piattaforma
distributiva disponibile, ecc.
La sola estrazione delle quote di mercato mette, comunque, in evidenza che, con
riferimento all'anno 2005, in Germania, in Italia e in Gran Bretagna gli
operatori pubblici hanno le quote di mercato (sul totale mercato TV ottenuto
sommando pubblicità, canone e proventi da pay-TV) più elevate,
rispettivamente del 48 per cento (ARD e ZDF), del 36 per cento (Rai) e del 31
per cento (BBC); in testa alla classifica, con quote di mercato (sul totale
mercato TV) pari o superiori al 30 per cento, si collocano, oltre ai citati
operatori di servizio pubblico, anche l'operatore di pay-TV BSkyB (36 per
cento) in Gran Bretagna, il broadcaster commerciale Mediaset (31 per
cento) e altri due operatori di pay-TV (CanalPlus e Sogecable) con il 30
per cento a testa. La quota di CanalPlus è destinata ad aumentare dopo la
fusione con il concorrente TPS; considerando soli i ricavi da pubblicità
televisiva, sono quattro gli operatori commerciali che hanno una quota superiore
al 45 per cento. Questi sono ProSiebenSat1 (46 per cento), ITV (47 per cento, ma
in realtà superiore includendo l'insieme dei canali prodotti e collegati ad ITV),
TF1 (50 per cento) e Mediaset (56 per cento).
Ciò porta a rilevare come, se il limite del 45 per cento del mercato
pubblicitario televisivo fosse applicato in Germania, Gran Bretagna e Francia, i
principali operatori TV sarebbero costretti a ridurre i propri ricavi.
Le principali tendenze del mercato che faranno variare le quote, al di là delle
specifiche performance dei singoli canali e gruppi, sono: lo spostamento
significativo, a seguito della maggiore penetrazione delle piattaforme di TV
digitale multicanale, delle risorse dalla televisione free-to-air verso
quella a pagamento che, ad esempio, in Gran Bretagna si appresta nel 2008 a
sorpassare come valore percentuale la televisione gratuita; la conseguente
crescita delle quote degli editori di
canali e servizi di televisione a pagamento e l'incremento delle loro quote
di mercato sia sul totale mercato che, marginalmente, su quello pubblicitario;
la conseguente riduzione delle quote di mercato (sia sul totale mercato che sul
solo mercato pubblicitario) di quegli operatori a prevalente offerta free-to-air,
che non diversificano e non sviluppano linee di ricavi tramite la distribuzione
di nuovi canali e servizi specializzati (gratuiti e a pagamento).
Il mancato o ritardato sviluppo della piattaforma di televisione digitale
terrestre (DTT) indebolisce notevolmente la capacità competitiva dei broadcaster
terrestri a prevalente offerta free-to-air, mentre rafforza la posizione
di mercato di piattaforme configurate come «proprietarie» (satellite, cavo e
IPTV), che permettono cioè l'accesso degli utenti alla TV digitale sulla base
di offerte premium veicolate tramite decoder proprietario.
Nel processo di formazione della televisione multicanale e multipiattaforma, le
quattro piattaforme digitali (satellite, cavo, IPTV e rete terrestre) si trovano
in differenti stadi di sviluppo, ma soprattutto hanno caratteristiche
strutturali e di configurazione diverse. La piattaforma digitale terrestre è
l'unica a non essere configurata come proprietaria e ad essere basata su
un'offerta prevalentemente gratuita (si ricorda che il decoder digitale
terrestre abilita alla visione di tutti i programmi indipendentemente dalla TV
emittente, Rai, Mediaset, Telecom Italia Media, Difree, emittenti locali che
siano).
Nel contesto competitivo di sviluppo della TV multicanale e multipiattaforma,
gli operatori che presidiano la piattaforma terrestre, già arretrata per i
tempi lunghi e per le difficoltà della migrazione al digitale, sono esposti a
una doppia sfida: fronteggiano il passaggio alla TV digitale multicanale
(investendo nell'aggiornamento delle reti e nella creazione di nuovi
canali e servizi); competono con nuove piattaforme che offrono servizi
integrati in virtù delle loro caratteristiche proprietarie.
In tutti i paesi europei il nascente mercato della televisione digitale
terrestre ha ottenuto una configurazione che ha garantito agli operatori della
televisione analogica un ruolo centrale e di traino affidando ad essi il maggior
numero di canali disponibili.
Concepita non come una «nuova piattaforma digitale» simile alle altre, ma come
la piattaforma di sostituzione e di aggiornamento tecnologico di quella
analogica terrestre, che - si ricorda - ha la configurazione di servizio
universale, la piattaforma digitale terrestre ricolloca gli operatori analogici
in un contesto di maggiore concorrenza e pluralismo, permettendo la
moltiplicazione degli editori e dei canali disponibili.
Il confronto fra quattro paesi europei mette in evidenza come: il peso degli
operatori nazionali di televisione analogica, in termini di numero di canali,
sia simile in ciascun paese; il numero degli editori attivi con disponibilità
di canali nazionali sia in forte crescita grazie alla piattaforma digitale
terrestre.
Un'accelerazione della conversione al digitale permetterebbe una riduzione del
numero di quelle famiglie solo-analogiche che, nel corso degli ultimi anni del
periodo di migrazione, costituirebbero una parte rilevante del mercato.
Con la data dello switch-off posticipata al 2012, fra il 2007 e il 2008
ci sarà circa metà delle famiglie italiane ancora solo analogiche e l'altra già
in grado di ricevere, attraverso le diverse piattaforme, servizi di televisione
digitale.
Inoltre, il posticipo dello switch-off ha un impatto significativo anche
sull'emittenza locale che, come è noto, costituisce sul mercato italiano una
sorta di televisione multicanale
analogica che non ha pari in Europa e che ha, in maniera significativa,
incrementato la ricchezza dell'offerta televisiva fruibile da ogni singola
famiglia.
Per le televisioni locali analogiche, che non hanno disponibilità di
trasmettere in simulcast (cioè in contemporanea tramite segnale
analogico e digitale) uno switch-over rallentato e posticipato significa
una drastica perdita di audience e dunque di ricavi pubblicitari.
Infatti, la progressiva affermazione dell'uso del decoder digitale spinge
gli utenti a ricorrere sempre meno alla visione dell'offerta analogica,
sacrificando così le emittenti presenti solo su questa. Al contrario, se gli
utenti passano continuamente dal segnale digitale a quello analogico (per poter
vedere canali che non sono trasmessi in tecnica digitale), la stessa offerta
digitale si impoverisce di audience e ne fanno le spese quei canali
trasmessi solo in tecnica digitale, che dovrebbero garantire maggiore pluralismo
proprio in virtù di un incremento dell'audience.
Il ritardo dello switch-off impoverisce allo stesso tempo la televisione
analogica e quella digitale gratuita, a evidente vantaggio delle piattaforme
digitali proprietarie a pagamento, che diventano l'unica via per accedere a
un'offerta ricca.
Il modello sotteso al disegno di legge appare arretrato e quindi incapace di
comprendere la reale portata e gli effetti dei fenomeni tecnologici in atto.
Intervenendo sul solo mercato della televisione terrestre, analogica e digitale,
il disegno di legge trascura completamente le dinamiche complessive del mercato
televisivo, di quello audiovisivo e del più ampio mercato della comunicazione,
nel momento in cui questi sono esposti a radicali processi di trasformazione. Il
disegno di legge ignora le specifiche forme di evoluzione dello stesso mercato
della televisione terrestre, sul quale vuole intervenire, non considerando che
esso si immette nel più ampio e integrato
mercato della televisione digitale multicanale e multipiattaforma.
Addirittura, a testimonianza della parzialità dell'intervento normativo
proposto, si evita di occuparsi dell'assetto della Rai, magna pars del
sistema televisivo, rimettendolo ad un futuro quanto fantomatico disegno di
legge specifico.
Non è la prima volta che in Italia la riflessione sul sistema televisivo, ma
anche la stessa attività dei decisori, risulta influenzata da pregiudizi
ideologici e da una scarsa comprensione delle dinamiche reali del mercato. Alla
componente ideologica si aggiunge anche l'indiscutibile difficoltà nel
comprendere le più recenti trasformazioni di un sistema che è attraversato da
numerosi e forti processi di evoluzione strutturale, che alterano i confini fra
i diversi ambiti che compongono l'intero mercato della televisione. L'insieme di
questi elementi spinge parte degli osservatori, ma anche dei decisori politici e
dei regolatori del sistema televisivo, a preferire punti di osservazione e
posizioni di retroguardia, ripiegando nella comoda osservazione di ciò che è
più facilmente conosciuto, individuabile e/o riconoscibile: la televisione
terrestre per come era negli anni Ottanta e Novanta.
In una fase di forte evoluzione tecnologica e strutturale, come quella attuale,
un sistema di regole dovrebbe mostrare cautela e prudenza e soprattutto dovrebbe
tenere in attenta considerazione il contesto evolutivo dei mercati e le
prospettive di crescita dei diversi operatori che li presidiano.
Al contrario, il disegno di legge propone un approccio punitivo verso Mediaset, leader
di mercato dell'offerta televisiva gratuita, che è esposta alla difficile sfida
del passaggio alla televisione digitale, su una piattaforma aperta, in un
contesto di forte incremento della concorrenza.
L'opinione di Mediaset è che l'applicazione integrale delle leggi esistenti e
una transizione veloce al digitale sarebbero
misure in grado di favorire - più delle ipotesi contenute nella proposta
governativa - l'apertura del mercato televisivo, l'ingresso di nuovi soggetti,
un maggior pluralismo di presenze nel settore.
In conclusione, come ho cercato di argomentare dal punto di vista giuridico ed
economico, le nostre osservazioni sul disegno di legge sono critiche. Sono più
di trent'anni che il Parlamento italiano periodicamente rivolge la propria
attenzione al settore televisivo. E ogni volta, indipendentemente dalle
maggioranze politiche del momento, ha comunque individuato soluzioni che hanno
reso possibile l'esistenza di un sistema televisivo che ha un'offerta tra le più
ricche d'Europa, all'avanguardia tecnologica in un settore vivo e competitivo.
Mi auguro che anche questa volta, al di là delle prese di posizione ideologiche
e delle naturali contrapposizioni politiche, alla fine si legiferi tenendo conto
delle logiche industriali, degli interessi dei telespettatori e delle aziende
che ruotano intorno al settore della comunicazione.
Spero, infine, che l'invito del presidente Meta ad una discussione serena trovi
in voi convinta adesione, al fine di creare norme rispettose di quei principi di
efficacia e proporzionalità che stanno alla base della nostra Costituzione e
dei principi costitutivi dell'Europa.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Confalonieri.
Ricordo ai colleghi che per questa audizione, anche se più importante e più
impegnativa di altre, valgono le stesse regole: tutti i colleghi hanno diritto
d'intervenire, facendo, però, delle domande e non dei discorsi lunghissimi.
Raccomando dunque la brevità e la sintesi. Siamo a conclusione di un lavoro che
procede da diverse settimane.
Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare
osservazioni.
DAVIDE CAPARINI. Per l'economia dei tempi, mi limito a tre domande. Catricalà
e Calabrò hanno riconosciuto a Mediaset un notevole impegno e dinamismo nella
promozione della piattaforma del digitale terrestre, e hanno lamentato, al
contrario, un cronico ritardo da parte di Rai. Effettivamente, voi avete
dimostrato un grande impegno nell'innovazione tecnologica investendovi 1,2
miliardi di euro. Vorrei dunque capire, in primo luogo, di quanto si potrebbe
abbreviare lo switch-over, e quindi anticipare lo switch-off,
nell'ottica del disegno di legge Gentiloni che l'ha fissato al 2012.
In secondo luogo, nello scenario che è stato prefigurato dal disegno di legge
Gentiloni, in cui compaiono una preclusione all'accesso al mercato premium
e il combinato disposto con i limiti pubblicitari, chiedo quale ruolo questi
farebbero assumere a Sky che, di fatto, oggi è già monopolista nei contenuti
satellitari a pagamento, anche alla luce della recente decisione del Governo -
che noi abbiamo contrastato - di concedere una sorta di esclusiva dei contenuti premium
sulla piattaforma satellitare.
Infine, dato che voi avete fatto una stima di 700-800 milioni di euro di perdita
annua per l'approvazione del disegno di legge Gentiloni, vorrei che questa cifra
venisse tradotta in posti di lavoro e vorrei capire, anche, quale portata
negativa potrebbe avere sull'indotto del settore televisivo e dei contenuti.
PIERO TESTONI. Anch'io sarò sintetico. Tutte le audizioni che noi abbiamo svolto finora, in un lavoro complesso e, mi pare, effettivamente utile, hanno messo in evidenza che uno degli elementi che ha caratterizzato questa prima fase di discussione riguarda soprattutto la asimmetria di un pezzo di riforma del sistema, senza che sia affrontata la legge che riguarda il servizio pubblico. In molte audizioni è apparso
evidente a tutti che senza un collegamento immediato con le misure previste sulla Rai, il disegno di legge Gentiloni non solo risulta incompleto, ma addirittura contraddittorio e smentito dalle stesse norme di riforma della Rai che sono, a loro volta, in pieno conflitto con le indicazioni del disegno di legge. Su questo volevo una sua riflessione, perché mi è sembrato un punto non del tutto toccato dalla sua esauriente relazione.
MARIO BARBI. Vorrei ringraziare il presidente Confalonieri per la sua lectio
magistralis, perché è stata piuttosto ampia e ha spaziato dal diritto
costituzionale europeo fino alle evoluzioni del mercato e agli sviluppi
tecnologici.
Vorrei difendere, però, il disegno di legge che lei ha così duramente
criticato e contrastato. Le domando se considera più appropriato intervenire
nell'introduzione di misure che favoriscono il pluralismo e la concorrenza,
quale ad esempio una misura, come quella che ci è stata proposta - o suggerita,
o evocata, per essere più precisi - dal presidente dell'Antitrust, ovvero il
limite all'audience. Egli suggerisce infatti che, anziché introdurre dei
limiti, dei tetti alla pubblicità o altre misure di tal genere, si pensi a dei
limiti relativamente all'audience, come succede in Germania.
Lei ci ha ricordato che Mediaset ha una posizione piuttosto forte nell'audience,
intorno al 40-42 per cento - mi pare -, mentre in Germania credo che il tetto
sia del 40 per cento. Una misura di questo genere non sarebbe certamente lieve
rispetto agli effetti che avrebbe sull'impianto di Mediaset.
Peraltro, continuiamo a pensare che la nozione di posizione dominante sia una
nozione da mantenere, all'interno della legge, e da confermare, per il bene che
intende tutelare, ovvero quello del pluralismo. La nozione di posizione
dominante è presente anche nella legge Gasparri, che lei ha con tanta forza
difeso, dicendoci che essa offre il migliore ambiente possibile
per consentire lo sviluppo delle aziende presenti sul mercato televisivo, tra
le quali Mediaset. La legge Gasparri però vieta le posizioni dominanti in ogni
mercato rilevante del sistema. Non concordo con lei che il settore televisivo
all'interno del mercato del sistema delle comunicazioni sia quello che lei
definisce come la somma di tutte le risorse. A me pare che ci siano due mercati:
quello della pubblicità e quello della televisione a pagamento, che sono
distinti e che possono essere opportunamente e distintamente regolati.
Non c'è nulla di punitivo verso Mediaset nell'indicare un tetto alla pubblicità,
sui cui effetti francamente non concordo. Lei naturalmente può sostenere che
l'effetto sarebbe la riduzione di 600-800 milioni, ma mi pare un calcolo molto
per eccesso. Nel settore della stampa quotidiana, dall'81, abbiamo una legge che
stabilisce limiti antitrust per le tirature (20 per cento) e per le
concessionarie di pubblicità (20 per cento), si parla precisamente di «soglie ex
ante alla concentrazione nel settore delle concessionarie di pubblicità
nella stampa: nessuna concessionaria di pubblicità può esercitare l'esclusiva
della raccolta per un numero di quotidiani la cui tiratura superi il 30 per
cento della tiratura nazionale. La percentuale si abbassa al 20 per cento,
qualora la concessionaria di pubblicità sia controllata da un gruppo editoriale
che comprende anche società editrici di quotidiani». Ci muoviamo, dunque,
dentro un settore che, per la delicatezza del bene che intende tutelare, prevede
opportunamente misure speciali che non sono riconducibili, immediatamente, al
diritto della concorrenza ordinario. Il Parlamento ha questa prerogativa, ovvero
di sviluppare misure particolari per tutelare un bene particolare.
Infine, sono andato a cercare le presentazioni che Mediaset fa agli investitori
internazionali, e ne ho vista una del gennaio
2007, in cui prevede un potenziale di crescita del mercato pubblicitario, le chiedo dunque se ci possa dire qualcosa in questo senso. Vorrei fare una osservazione sulla redditività di Mediaset. Lei ci ha parlato di 3.678 milioni di euro di fatturato con un risultato operativo, in Spagna e Italia, pari a 1.200 milioni, ovvero il 33 per cento); sono andato a vedere il bilancio di RTL Group, per avere una idea comparativa, e mi pare di aver trovato un fatturato di circa 5 miliardi, e 750 di margine operativo, ovvero il 15 per cento. Mediaset sarà certo particolarmente capace, ma forse vi è un qualche rapporto con la posizione privilegiata che essa occupa nel sistema, anche in ragione di normative che certamente non l'hanno danneggiata.
ANTONELLO FALOMI. Ringrazio il presidente Confalonieri per averci offerto un
punto di vista ovviamente di parte, come era ovvio che fosse, ma abbastanza
argomentato e documentato.
Faccio una breve considerazione di ordine generale e dico che ogni processo di
liberalizzazione, come si dimostra in altri settori - farmacisti, benzinai e
tutti gli altri - comporta che una parte del sistema soffra e una parte, a
volte, guadagni. In generale, i processi di liberalizzazione, come credo che
avvenga anche con questo disegno di legge, comportano qualche misura di
difficoltà per chi, in un certo assetto, vi è nato, vi è cresciuto e si è
sviluppato. Questo mi sembra abbastanza ovvio.
Vorrei ora porre delle domande riguardanti tre questioni. In primo luogo, mi
pare che abbia espresso, nella sua relazione, una critica al fatto che la base
di riferimento per il calcolo del 45 per cento, a parte la contestazione ex
ante o meno, sia troppo stretta rispetto a quella che sarebbe necessaria. Vi
dovrebbero essere inclusi abbonamenti, il canone Rai e così via. Mi pare che si
configuri in qualche modo un tipo di base analogo a quello individuato dalla
legge Maccanico del
1997. Le domando, dunque, se sia d'accordo con il limite del 30 per cento
previsto con quella base di riferimento.
In secondo luogo, mi soffermo sulle frequenze. Lei sa che l'Europa ha
contestato, alla legge Gasparri, la violazione delle direttive quadro in materia
di comunicazione a proposito del meccanismo, previsto dalla stessa legge, di
assegnazione delle frequenze nel nuovo scenario digitale. Le domando come
concilia l'affermazione da lei fatta, e che io ho sentito, circa la necessità
di tener conto, anche nell'ambito del nuovo scenario, degli operatori esistenti
nell'analogico con il fatto che la direttiva prevede, invece, dei principi di
assegnazione delle frequenze che di questo elemento tengono poco conto perché
cercano di fare un ragionamento più obiettivo.
SILVANO MOFFA. Anch'io la ringrazio, presidente Confalonieri, per la
relazione abbastanza documentata e per il ragionamento complessivo che ha posto
alla nostra attenzione.
Vorrei rapidamente porre due questioni. Abbiamo ascoltato il presidente della
Rai Petruccioli, il quale, oltre a confermare dal suo punto di vista l'approccio
sbagliato rispetto al concetto ancora molto diffuso dell'esistenza del duopolio
nel nostro paese, ha anche sottolineato l'opportunità - e lo ha chiesto
esplicitamente alla Commissione - di affrontare il tema della liberalizzazione
delle frequenze in maniera diversa. Petruccioli ha detto - leggo testualmente -
che «il disegno di legge parla di una rete per chi ne ha più di due. Pongo una
domanda: sarebbe possibile pensare non ad una rete, ma ad una quota della
capacità trasmissiva complessiva liberata entro lo stesso tempo? Per la Rai
questo sarebbe più agevole». Chiedo se anche per Mediaset vi sia la stessa
valutazione.
Un'altra domanda attiene all'audizione di Catricalà. Qui entriamo nel merito
delle questioni che già alcuni colleghi hanno sollevato. Catricalà ha ribadito
il concetto - che
l'antitrust più volte ha esternato - circa la non opportunità di porre tetti per quanto attiene alla pubblicità. Tuttavia, c'è un passaggio nella sua relazione - sul quale la Commissione si è anche soffermata nell'audizione - che riguarda il rilievo attinente all'opportunità di andare verso riforme di tipo strutturale, per quanto riguarda l'eliminazione dei limiti, in virtù di quello che possa effettivamente rendere il mercato contendibile. Questo concetto di contendibilità del mercato, che anche lei ha trattato nella sua relazione, la porta a ritenere opportuni interventi di natura regolamentare piuttosto che interventi di natura modificativa, in termini di integrazione della precedente legislazione? In sostanza, c'erano le condizioni, secondo lei, per andare soltanto ad un correttivo che introducesse delle riforme di tipo strutturale in virtù di quello che chiede l'Antitrust o, invece, è stato opportuno un intervento qual è quello introdotto dal disegno di legge Gentiloni?
ENZO CARRA. Dottor Confalonieri, proprio all'inizio del suo intervento,
apprezzabile come tutti quelli che lei svolge in qualunque sede, perché ormai
è uno dei testimoni storici di questa materia, lei ha definito grande Mediaset,
ma di dimensioni medie se confrontata con le altre grandi aziende mondiali. Le
vostre previsione per il futuro, a legislazione invariata, quali sono? Lo
spauracchio generato da normative poste sul terreno per poi essere qualche volta
modificate non finirà per favorirvi? Non sarà colpa dell'arroccamento questa
dimensione di medio livello di Mediaset?
Il mercato anche in Italia, in questo ambito, a legislazione invariata, è
fortemente mutato, e forse voi, preoccupati come eravate a guardare da una
parte, vi siete fatti prendere alle spalle, dall'altra parte. Questo non so se
sia colpa dell'arroccamento o di strategie che forse si sono rivelate sbagliate,
però,
il vostro ruolo di leader storico, in una perdurante crisi di identità dell'ex duopolista, visto che ormai di duopolio cominciamo a parlare un po' meno, dovrebbe essere molto di più che quello dell'estremo difensore. Giocate di rimessa invece che giocare all'attacco, come invece avete fatto al vostro inizio. Avete vinto una partita in attacco e ora vi state difendendo, state facendo catenaccio da vent'anni, oltretutto con una teoria del complotto che non fa bene a nessuno e che, lo ricordiamo tutti, ha avuto corso anche quando Berlusconi era al Governo. Questo psicodramma non so - me lo chiedo - se faccia bene anche a voi. Anzi, vi chiedo, arrivando alla conclusione, come immaginate il vostro nuovo ruolo nel mercato globale. Una volta tanto, dottor Confalonieri, si astragga da giurisperiti, causidici, esperti in ricorsi amministrativi, in calcoli del danno emergente e del lucro cessante, e ci dica qualcosa su quello che pensate Mediaset possa fare nel nuovo mercato globale. È da tanto tempo che non ce lo dite. Il modello legislativo, come lei ha detto, sarà arretrato, ma voi, quanto siete arretrati? E nel contesto evolutivo del mercato, come è evoluta Mediaset?
EGIDIO ENRICO PEDRINI. Signor presidente, se lei permette, vorrei riservarmi
di presentare delle domande in forma scritta, da far acquisire agli atti, per
venire incontro al rispetto dei tempi che lei ci chiede. Proverò in ogni caso a
intervenire velocemente.
Volevo avere, in primo luogo, alcune valutazioni di carattere economico circa
l'incidenza delle smart cards e delle ricariche sul fatturato di Mediaset.
In secondo luogo, se il totale dei ricavi, deriva dalla somma di televisione
commerciale, pay per view, attività di network operator,
Internet, Teleshopping e quant'altro, vorrei sapere - cosa analoga - qual era
l'incidenza delle ultime tre voci sul totale del revenue su Mediaset. In
terzo luogo, domando - vado velocemente e
mi scuso per la mancanza di motivazioni che potrò fornire successivamente -
qual è il costo sostenuto da Mediaset per l'acquisizione dei diritti pay
delle squadre di calcio al netto di quanto ricavato dalla cessione in
sub-licenza dei diritti agli operatori di altre piattaforme.
Chiedo inoltre se, a fronte della crescita della pay-TV sul digitale
terrestre, secondo voi, ci sarà un rallentamento nella crescita della pay-TV
satellitare.
Infine, mi piacerebbe ascoltare le vostre valutazioni sulle indicazioni della
Commissione europea relative alle valutazioni di settore della pay-TV
come mercato a se stante, anche con riferimento all'autorità garante della
concorrenza del mercato, che ha preso in esame lo specifico mercato delle
televisioni a pagamento. Per una migliore precisione, comunque, posso mettere in
forma scritta le mie domande, dato che vi chiedo dei numeri e non posso
pretendere che li abbiate con voi qui in questo momento.
ANGELO MARIA SANZA. Nella sua ampia e puntuale esposizione, presidente Confalonieri, lei ha più volte richiamato il fatto che uno dei soggetti beneficiari del disegno di legge Gentiloni possa essere chi trasmette attraverso il satellitare terrestre, cioè Sky. Le chiedo di darci, un po' più approfonditamente, le sue motivazioni, perché, anche alla luce delle audizione dei due presidenti delle Authority, abbiamo intravisto che è su questo che si gioca la partita. Lei stesso ha detto, infatti, che al termine di circa un anno e mezzo, le entrate dei tre soggetti maggioritari finiranno per essere sullo stesso piano. Le chiedo dunque se può fornirci qualche motivazione più approfondita.
CARLO CICCIOLI. Tra noi, c'è chi vi vede con simpatia e chi con antipatia, però che la vostra azienda sia la più grande
azienda italiana nel settore, che non sia ovviamente pubblica, è un dato di fatto. Vi chiedo se esista un piano di internazionalizzazione della vostra azienda, in grado di farle assumere un ruolo leader anche nel campo dell' esportazione. Qualsiasi italiano non può non guardare con favore al fatto che un'azienda italiana sfondi in una rete più grande. Volevo dunque sapere - qualcuno parlava di globalizzazione - se c'è una prospettiva da parte dell'azienda di operare investimenti forti in questo ambito.
ILARIO FLORESTA. Complimenti per la sua relazione, dottor Confalonieri. Vorrei che mi chiarisse il rapporto esistente tra l'audience e il fatturato di Sky e Mediaset. Poiché si parlava di utili e non utili, vorrei sapere - se ho ben capito Sky ha un'audience del circa 7-8 per cento e fattura, grosso modo, quello che fattura Mediaset, - quale deve essere l'incidenza strutturale più elevata di Mediaset affinché non si abbia un fatturato maggiore. Cerco di essere più chiaro. Se Sky aumenta l'audience del doppio, cioè passa dal 7 al 14 per cento, immagino che il suo fatturato, più o meno, raddoppi e quindi assuma una dimensione predominante. È giusto? Vorrei che mi spiegasse questo aspetto.
PRESIDENTE. Do nuovamente la parola al presidente Confalonieri per la replica.
FEDELE CONFALONIERI, Presidente di Mediaset. Visto che parliamo di Sky, rispondo subito su questo argomento, anche se non è bello parlare dei concorrenti (infatti, nella mia relazione, ho sorvolato, volutamente, su questo aspetto). Sky fa il grosso del suo fatturato, ovviamente, con le sottoscrizioni, con gli abbonamenti; ha infatti 4 milioni di abbonati. Consideriamo Sky il beneficiario di tutta questa vicenda perché esso
non ha alcun vincolo sulla pubblicità. Sky ha triplicato il suo fatturato
pubblicitario l'anno scorso grazie ad una politica intelligente sui campionati
mondiali, nel senso che ha sfruttato bene gli eventi che aveva. Tuttavia, Sky va
anche molto al buio. Oggi Sky - ma ho una certa riluttanza a parlare del
concorrente in questo senso - è così restia ad entrare in Auditel, al di là
di quello che ha detto, perché, anche se possiede 138 canali, a ben guardare,
ha un seguito maggiore sui canali dove vengono trasmesse le partite più
importanti, rispetto ai canali dedicati al cinema o ad altro; si tratta di quote
che si aggirano attorno a poco più dello 0 per cento e che, alla fine, nel
complesso, totalizzano l'audience di cui stiamo parlando, che però è
molto meno del 7-8 per cento (anche se sono, certamente, più forti in alcune
fasce orarie, come quelle pomeridiane dei programmi per bambini). Il loro
fatturato, quindi, non ha assolutamente questa prospettiva di aumentare o
raddoppiare al raddoppiare dell'audience. Sky dunque è beneficiario
proprio in questo senso, perché non ha nessun limite, mentre per noi, un limite
del 45 per cento è significativo.
Chiedo scusa se rispondo in questo modo, ma sono stato abituato a fare botta e
risposta («a domanda risponde», come si dice nei tribunali). Cerco ora di dare
una risposta globale a tutto il problema.
In primo luogo mi soffermo sull'audience. Le audiences - penso
alla Germania - a noi andrebbero anche bene, ma bisogna guardare il contesto
storico, ovvero a come si è arrivati alla nostra posizione dominante. Prima si
chiedeva se Mediaset fosse disposta all'applicazione della legge Maccanico.
Certamente, quella legge peraltro imponeva un tetto del 30 per cento. Ma quello
che vorrei sottolineare è che il mercato si definisce proprio attraverso quello
di cui abbiamo parlato: il
mercato è pubblicità, più canone di abbonamento, più abbonamenti di pay-TV,
che fanno l'insieme delle risorse, il denominatore dal quale si divide. Qualcuno
ha chiesto in merito ai diritti del calcio - eventualmente ci riserviamo di
rispondere successivamente alle domande più puntuali, per le quali ci sono
delle cifre da dare -, ebbene, noi abbiamo abbandonato l'idea di avere la Champions
League perché, per noi, era antieconomico, mentre Sky, che invece ha una
clientela ricca in questo senso, se lo può permettere; questa sera, ad esempio,
sulle nostre reti, la partita Milan-Celtic avrebbe registrato il 15-16-18 per
cento di ascolti; è chiaro che negli anni in cui ci sono state semifinali come
Milan-Juventus o Milan-Inter, si faceva un ascolto altissimo, ma che ci siano
tre squadre italiane nelle semifinali di una Champions League è un colpo
di fortuna che può capitare una volta ogni 50 anni. Per concludere, ritengo che
l'audience possa essere un criterio da considerare.
Quanto alla posizione dominante, tale questione è affidata alle Authority,
in tutte le documentazioni. È un classico questo, anche se gli atteggiamenti
europei ed americani nei confronti della posizione dominante sono diversi. In
America si considera il fruitore ultimo, il consumatore, il destinatario della
norma; per questo Microsoft, che ha il 100 per cento in certi settori, non è
attaccata. Non è casuale che abbia subito le indagini in Europa e non in
America, perché il cittadino consumatore, in America, ha un valore, è
considerato; di conseguenza non ci sono problemi di prezzo, non si hanno
distorsioni, non c'è l'abuso. In Europa, invece, c'è più un approccio -
diciamo - ideologico.
Come si fa a prevedere il tetto del 45 per cento? Il mercato non dipende solo
dall'attore, ma anche dai concorrenti. Basti pensare a Sky, di cui dicevamo
prima, che ha triplicato,
quest'anno, i suoi ricavi televisivi, passando da 70 a 200. Le leggi, dunque,
servono per indicare pragmaticamente l'esistenza di un abuso. La legge Maccanico
parla di un tetto del 30 per cento: noi lo abbiamo superato due volte e, per
questo, siamo stati oggetto di istruttoria. Se si supera il 30 per cento si apre
una istruttoria, ma se - come è avvenuto la prima volta - lo si supera per
ragioni legate ad uno sviluppo interno, non si è passibili di alcuna sanzione;
se invece si tratta di acquisizione, concentrazione o fusione si diventa
passibili di sanzioni, ovvero di provvedimenti deconcentrativi.
Quanto alla stampa e ai limiti, noi non abbiamo un solo antitrust, abbiamo anche
quello famoso del 20 per cento sulle frequenze; il 20 per cento della diffusione
è equivalente al 20 per cento delle frequenze. Abbiamo anche altri limiti
antitrust, che sono quelli di cui abbiamo parlato finora, a cui si aggiungono,
inoltre, gli affollamenti: la stampa potrebbe, ad esempio, fare 50 pagine di
pubblicità, ma non ha il limite del 20 per cento o del 18 per cento così
puntuale come l'abbiamo noi. Direi che quel limite è più difeso dai
giornalisti (Commenti del deputato Mario Barbi)... No, mi scusi, la Corte
costituzionale aveva riconosciuto quel 20 per cento, se vi era sviluppo
tecnologico; non è casuale che un ministro del centrosinistra ci ha dato
l'autorizzazione a continuare per Retequattro, perché la legge Maccanico
riconosceva che Retequattro non sarebbe andata sul satellite fino al
raggiungimento di un congruo numero di parabole. Nell'ultima sentenza emessa, la
Corte ha confermato che tutti i provvedimenti che erano stati fatti erano
legittimi. Nella polemica che si legge sui giornali, la Corte viene spesso
tirata in ballo a sproposito. Non vorrei, però, essere dispersivo.
Relativamente alla domanda sull'abbreviazione del termine, l'Europa ha indicato
il 2012, ma Francia e altri stanno
andando verso il 2010 e sottolineo che quella data sarebbe comoda per tutti
quanti; la data fissata dal Governo precedente era il 2008.
Rispondendo ad un'altra questione, come detto in precedenza, Sky ha più
pubblicità e ha 138 canali, che possono aumentare. Il discorso sul mercato a
doppio versante è anche questo: quando uno spettatore ha 140 canali da
scegliere - e parlo soprattutto di un'audience forte come questa - ha la
possibilità di pigiare 140 tasti fino a trovare quanto può interessargli. Se
non lo ha trovato nelle sei reti classiche, compresa La7, può comunque
scegliere qualche altro canale. C'è un impoverimento della nostra audience,
quindi c'è concorrenza su audience, su risorse e quant'altro. Di questo
bisogna tener conto.
Non me la sento di tradurre questo in posti di lavoro, e sono restio ad usare
questi argomenti. Ricordo di qualcuno che ci parlò di ricatto occupazionale: è
una parola che non condivido e non mi piace usarla, perché vorrei che
continuassimo ad assumere persone.
Per quanto riguarda la domanda sui nostri progetti per l'avvenire, abbiamo già
fatto diverse cose: ad esempio, Telecinco ha il 32-33 per cento di Ebit
nell'ambito di un quadro competitivo totalmente diverso, con quattro private e
tre pubbliche. Del resto il quadro competitivo dipende dalle condizioni di
nascita, dalle ragioni storiche. Qui, infatti, abbiamo molto meno - il 24 o 25
di Ebit - rispetto ad altre aziende. Possono esserci periodi nei quali - magari
perché abbiamo venduto il 3 per cento di Telecinco - nei bilanci si ritrova una
plusvalenza, ma di norma oggi ci aggiriamo intorno 24-25 per cento. Da quando
siamo in borsa, abbiamo
pagato tremila miliardi di vecchie lire di tasse , e questo lo dico con
orgoglio, perché abbiamo potuto dare alla comunità delle risorse importanti.
Quanto alla possibilità di andare all'estero, faccio notare che quattro delle
nostre persone sono in questo momento in Cina - (io stesso vi sono andato ad
aprile). È un mercato straordinario, dove i telefonini sono già il numero uno
e le televisioni, quando vai a Pechino - noi siamo andati a Pechino -, ti
lasciano sbalordito con una audience che, se è bassa, è di 250-300
milioni di persone. Pensa che programmi si potrebbero fare! Però è tutto da
scoprire: in quel paese vi è il capitalismo, ma le regole sono quelle che sono
e dalla sera alla mattina si possono trovare delle sorprese. Però,
relativamente alla nostra globalizzazione, faccio notare che abbiamo un know
how pubblicitario; noi, con Publieurope, raccogliamo pubblicità per almeno
una quindicina di antenne europee, anche nostre concorrenti, come, ad esempio,
Antenna Tres; ci sono alcune aziende, le multinazionali, che fanno un
investimento unico per tutta l'Europa, e quindi, se si è bravi a raccogliere,
si lavora con profitto. Questo è il nostro know how principale, più di
quello televisivo.
Mi preme inoltre sottolineare che in questi due anni noi ci siamo inventati una
cosa che non esiste da nessun'altra parte d'Europa e del mondo, ovvero la carta
prepagata - è un qualcosa che abbiamo inventato noi mutuandolo dal telefonino
-da inserire nel decoder per avere la pay-per-view. Noi la
chiamiamo televisione per meno abbienti perché, mentre con Sky l'utente è
costretto a comperare l'abbonamento, con questa modalità può, con 5-6-7 euro,
vedere la partita, magari insieme agli amici o al bar.
L'altra innovazione è quella relativa ai telefonini; abbiamo inventato la
televisione sul telefonino, insieme alla relativa
creazione della rete, e, mentre H3G l'ha fatta per sé, noi l'abbiamo messa a
disposizione degli altri operatori italiani. Quanto alla possibilità di andare
in giro per il mondo, dobbiamo essere anche piuttosto chiari: la lingua italiana
non è diffusissima e, quando si produce una fiction, anche bellissima, bisogna
tener conto che il mercato è ristretto. Al contrario, quando si realizza un
prodotto in inglese, questo sfonda dappertutto e ha miliardi di spettatori.
Vorrei sottolineare infine una ultima difficoltà relativa a tale questione. Noi
stavamo andando a riprendere, ad esempio, la trattativa con ProSieben, ma oggi
abbiamo dovuto constatare che i Private equity fanno una concorrenza con
delle offerte strepitose, proprio perché l'approccio è finanziario (investono
qui, in Cina, in Australia, ovunque, e, fra tre anni, vendono).Noi invece siamo
tenuti alle quote di mercato che abbiamo, al rispetto dei nostri azionisti dei
quali, come avete visto, la metà sono stranieri: se non gli offri quella
redditività di cui abbiamo parlato prima, non comprano i tuoi titoli oppure se
ne disfano, perché il mondo, del resto, è pieno di soldi e di competitività.
Il discorso sulla globalizzazione è vero, però, intanto, il core business
va preservato. Quindi, se ti portano via 600 o 800 milioni, diventa difficile.
Su questo farete un atto di fiducia nei miei confronti, non vengo qui a fare il
magliaro; vi ho presentato l'aggregato, non il consolidato, ed è chiaro che
poi, nel caso in cui il provvedimento Gentiloni dovesse essere approvato con la
previsione di quel tetto pari al 45 per cento, ci impegneremo con tutte le
nostre forze pur di cercare di superare le difficoltà. Questi, però, sono i
dati matematici, non c'è nessuna iperbole, non c'è nessuna esagerazione, è
ben lungi da noi la voglia di fare la commedia. Qui siamo nel tempio della
democrazia, non siamo venuti a fare i piazzisti al mercato.
Quanto al discorso sull'inclusione o esclusione della Rai, secondo noi dovrebbe
essere inclusa.
Relativamente alla domanda circa la nostra valutazione del mercato
pubblicitario, è ovvio che, quando si incontrano gli analisti, all'inizio
dell'anno, si spera che vi sia un mercato positivo. Certamente, oggi, il mercato
pubblicitario soffre, non è quello di qualche anno fa, però, se l'economia va
meglio - e gli indicatori sembrano andare in questo senso -, è logico che il
mercato la seguirà. Però, quando, oggi, andando nei road show in giro
per il mondo, ci viene chiesto quale visibilità abbiamo sui nostri fatturati
pubblicitari, non possiamo far altro che fornire dati a breve termine. Abbiamo
dei contratti quadro che stipuliamo con le grandi aziende per l'anno, ma la
campagna su un marchio o su un prodotto viene decisa, spesso, all'ultimo momento
e quindi, la visibilità, sui fatturati, è veramente molto ridotta (questo
avviene già da due o tre anni).
Della redditività abbiamo parlato. All'onorevole Falomi mi pare di aver
risposto in merito alla questione del 30 per cento.
ANTONELLO FALOMI. Mi premeva conoscere un suo parere sulla violazione delle direttive quadro contestata in sede europea.
FEDELE CONFALONIERI, Presidente di Mediaset. Ecco, la contestazione è quella. Il trading, che avete previsto voi con una disposizione legislativa, è uno strumento intelligente che ci ha consentito di far decollare il digitale terrestre. Abbiamo comprato, come era indicato in quella legge, le frequenze, anche da operatori locali. In Italia si sono costituiti 10 multiplex e ci sono, oggi, 30 possibilità sul digitale terrestre, ovvero 30 programmi visibili. L'Europa ha contestato il trading perché temeva che si riproducesse la posizione dell'analogico,
ma questo, l'ho detto nella relazione, per me è molto criticabile. Tale
meccanismo doveva essere difeso perché - a parte il fatto che non ha colore
politico, dal momento che è stato varato dalla maggioranza del 2001 - ha
consentito un avvio intelligente. L'Italia ha tutte le frequenze occupate, perché
vi sono 700 televisioni locali. Ora, in altri paesi c'è la riserva dello Stato
e quei paesi, come Francia, Spagna, Gran Bretagna, che vogliono fare il
digitale, mettono a disposizione dell'operatore un x numero di frequenze, uno spectrum,
come si dice in inglese, che l'operatore televisivo viene ad occupare.
In Italia, tutti lo sappiamo, la televisione è nata occupando, comprando e
vendendo le frequenze; noi lo abbiamo fatto per Canale 5, abbiamo comprato da
Rusconi Italia 1, e dall'allora Mondadori Retequattro. Questa è la nostra
storia. Nel digitale, si è riproposto il modello già seguito per l'analogico,
quindi, l'evoluzione è stata in quel senso. Si poteva dunque rispondere
veramente con delle ragioni, invece di mettere la testa sotto la sabbia senza
dire nulla e fare una cosa che a mio avviso non funzionerà. Se questo
provvedimento passerà - ma spero che passi modificato -, e noi e la Rai saremo
costretti tra un anno a restituire, in una sorta di collazione, le nostre
frequenze, voglio proprio vedere se ci saranno degli investitori disposti a
comprare le frequenze, a spendere molti soldi per digitalizzarle e per comprare
i programmi! Noi abbiamo già digitalizzato quelle frequenze che abbiamo
comprato e abbiamo messo le torri e tutto il necessario! É nato tutto in quel
modo! Non è casuale, infatti, che, nel corso di alcune interviste, Pelliccioli,
de Benedetti e altri operatori abbiano detto tutti di non essere interessati ad
entrare. I motivi sono proprio questi.
GINA NIERI, Consigliere di amministrazione di Mediaset. Relativamente al discorso di Petruccioli, sulla possibilità di andare verso un'ipotesi di cessione di capacità trasmissiva
piuttosto che cedere le reti, che, del resto, è anche quanto detto nella
relazione introduttiva dal presidente Confalonieri, mi preme sottolineare che,
per noi, questa è la strada maestra da seguire. Faccio riferimento a quel 40
per cento che l'Authority sta comunque portando a compimento nella
delibera relativa.
Alla domanda se siamo più favorevoli ad un'ipotesi di regolamentazione delle Authority
piuttosto che ad una soluzione normativa, rispondo che siamo assolutamente
convinti che ci sono già, specialmente per quanto riguarda le definizioni delle
posizioni dominanti e le misure eventualmente correttive da mettere in piedi, le
possibilità, applicando le leggi esistenti, di vedere realizzato questo tipo di
intervento da parte delle Autorità, che hanno un potere regolamentare molto più
flessibile per regolare il mercato.
L'onorevole Sanza aveva posto una domanda sull'internazionalizzazione, ma mi
pare che abbiamo già risposto.
CARLO CICCIOLI. Volevo una sua risposta in merito ai progetti di espansione sul mercato.
FEDELE CONFALONIERI, Presidente di Mediaset. Le opportunità sono come dei treni che passano. Ci sono dei paesi dove si apre una opportunità, ma poi bisogna fare i conti con le proprie possibilità. Si possono verificare due situazioni: si può acquistare un'attività che è già avviata, per cui bisogna pagare il cosiddetto goodwill (quindi al meglio per il venditore); oppure si può comprare un'attività sul nascere, e la si costruisce da sé (quello che abbiamo fatto in Spagna). Ci sono poi dei mercati dove si potrebbe investire, ma sono mercati poco rilevanti, come la Bulgaria, o la Romania; ogni tanto capita un'offerta di questo tipo, ma, come dico spesso ai nostri collaboratori, c'è una grande differenza fra andare in questi
paesi per mettere una bandierina sulla carta geografica, e andarvi per
realizzare fatturato o utili, che è il nostro scopo. Ogni tanto c'è qualche soi-disant
grande manager; ricordo, ad esempio, il piccolo genio di Vivendi, Jean-Marie
Messier, che ragionava in termini di pouvoir - i francesi usano spesso la
parola pouvoir più che guadagno, o altre cose - e che, alla fine, dopo
aver comprato molto, era sull'orlo della bancarotta. Al contrario, un grande
finanziere, il maggior azionista di Airtel, l'ha comprata quando costava poco e
poi l'ha venduta; però, ha fatto tutto questo andando nei singoli mercati e
lavorando molto. Sono due approcci diversi.
Oggi, però, le condizioni da affrontare sono quelle di un mercato finanziario
vivace, con molti soldi e con la presenza delle Private equity, e non
soltanto nel nostro settore. Del resto, è facile vedere quante aziende, che
vengono comprate e mantenute, magari per 2-3 anni, con costi ridotti, con
riduzione di personale, magari anche selvaggia, poi magari tornano sul mercato
successivamente. La globalizzazione, ormai, vuol dire proprio questo, ovvero il
mondo inteso come perimetro, e alla fine, se si è mossi da una logica
industriale, non si può competere.
Ringrazio tutti per averci ascoltato con pazienza.
PRESIDENTE. Ringrazio molto il presidente Confalonieri.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta, sospesa alle 12, è ripresa alle 18,35.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 1825, recante
disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di
transizione alla tecnologia digitale, l'audizione di rappresentanti dell'UPI e
dell'ANCI.
Comunico agli onorevoli colleghi che per l'UPI sono presenti il dottor Vincenzo
Vita, assessore della provincia di Roma, il dottor Paolo Mengozzi, funzionario
della provincia di Roma, la dottoressa Barbara Perluigi, dirigente dell'UPI; per
l'ANCI il dottor Gerardo Capozza, sindaco di Morra De Sanctis, il dottor
Feliciano Polli, vicesindaco di Terni e responsabile politico per l'innovazione,
il dottor Roberto Pella, vicesindaco di Valdengo, la dottoressa Moira Benelli,
il dottor Ferrero Gabrielli e il dottor Pietro Zen.
EMERENZIO BARBIERI. Signor presidente, intervengo sull'ordine dei lavori per chiederle quanto segue. La seduta odierna prevede anche l'audizione dei rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome: sono scomparsi?
PRESIDENTE. Chiedo scusa per non avervi informato in anticipo. I rappresentanti delle regioni e delle province autonome arriveranno alle ore 19,30. Partiamo quindi con lo svolgimento dell'audizione dei rappresentanti di UPI ed ANCI a cui do la parola.
VINCENZO VITA, Assessore della provincia di
Roma e rappresentante dell'UPI. Vi ringrazio per l'opportunità offerta
all'organizzazione che rappresento ed anche a me di tornare in questa sede, in
cui ho trascorso un periodo gradevole, ancorché talora conflittuale.
Mi atterrò al ruolo che svolgo, quindi desidero fugare ogni dubbio
sull'eventualità di introdurre - se non per inciso - temi che esulino dai
motivi per i quali l'Unione delle province
italiane - come le altre associazioni degli enti locali - è stata convocata.
Mi preme innanzitutto esprimere, essendomi tra l'altro occupato di questo
settore, una valutazione complessivamente positiva del testo in discussione. Si
tratta di un testo equilibrato, che affronta forse solo una parte dell'universo
multimediale entro cui ci muoviamo: si tratta di un limite che caratterizza
tutta la nostra normativa, la quale talvolta stenta ad adeguarsi all'innovazione
tecnologica, che ormai corrisponde all'attuale comunicazione. Mi riferisco ai
rilevanti temi della televisione attraverso Internet, della nuova stagione dei
cellulari, della rete delle reti, argomenti che suppongo siano oggetto
quotidiano dell'attività delle vostre Commissioni. Il testo fornisce tuttavia
un criterio ed un modello di approccio interessanti.
Alcuni temi, che attengono proprio alle autonomie locali, potrebbero essere
approfonditi. La vexata quaestio, da molti anni dibattuta, è lo
specifico ruolo locale, laddove oggi, presidente e deputati, il termine «locale»
ha un senso diverso e nuovo rispetto a qualche anno fa, perché oggi il locale
è la tessera del mosaico globale. I giapponesi coniarono un neologismo
sgradevole e tuttavia significativo, glocal, in cui globale e locale si
intrecciano, e non può esservi globale senza un locale autorevole.
Proprio nelle circostanze evolutive del sistema dei media o della società
postmediatica che stiamo vivendo, il locale diventa per sua natura un soggetto
comunicativo. Vi si intrecciano numerose esperienze e indubbiamente - tema che
preme sottolineare maggiormente - necessita di maggiore spazio, laddove sia
inteso come grande categoria, da non limitare ad una disamina sull'emittenza
locale, che ne è parte
rilevante, ma non risolutiva. Oggi, con «locale» si deve intendere quella
funzione che garantisce all'innovazione la sua più concreta applicazione.
In questo senso, desidero aggiungere qualche rapida considerazione, la prima
delle quali è negativa, e concerne la constatazione di come un articolo del
decreto legislativo n. 177 del 31 luglio 2005, noto come testo unico della
radiotelevisione, appaia del tutto desueto. L'articolo 5, infatti, andrebbe
riconsiderato per quanto concerne il comma che vieta alle amministrazioni
pubbliche e quindi agli enti locali di essere titolari di titoli abilitativi per
lo svolgimento delle attività di operatore di rete o di fornitore di contenuti.
Questo divieto, contenuto nel testo unico, ha un'indubbia motivazione, perché
presuppone il timore, da parte dell'emittenza locale, di vedersi sopravanzare
impropriamente da enti locali considerati più potenti, o dotati di maggiori
risorse, cosa che spesso non accade. Tuttavia, nella chiave di un'evoluzione
multimediale intrecciata tra i territori locali e l'ambito nazionale globale,
questo divieto appare singolare, perché oggi tutti i soggetti, persino un
ragazzo attraverso il sito Internet www.youtube.com, possono concorrere
all'immaginario globale del pianeta, ma non un ente locale. Esiste dunque una
paradossale mancanza di opportunità, una chiusura a priori.
Nell'eventuale ristesura del testo, presidente, si potrebbe sottolineare come
non si proponga di realizzare una televisione generalista, ovvero come le
province - ma suppongo che il discorso sia più ampio - non intendano fare
concorrenza alla TV locale.
Si tratta, invece, di poter essere un punto di riferimento, come spesso avviene;
paradossalmente, è avvenuto anche con il Governo precedente e con l'attuale, i
quali, con i bandi del CNIPA, hanno offerto alle autonomie locali l'opportunità
di
mettere in rete i comuni, con un'evidente contraddizione in seno allo stesso
ambito centrale. Si tratta quindi di un'opportunità di concorrere alla
multimedialità attraverso la televisione via Internet, la web TV,
strumenti che possano rafforzare il macroconcetto di e-government, ovvero
dell'opportunità, anche attraverso la TV digitale terrestre - che non è
solamente televisione -, di ampliare, migliorare, fortificare il rapporto tra
istituzioni e cittadini. In questa chiave si propone l'abrogazione di tale comma
dell'articolo 5, rivedendo il testo complessivo per evitare ogni ambiguità nei
riguardi dell'emittenza locale.
In questo tracciato si inserisce anche un'altra ipotesi di lavoro di rilevante
fascino, oggetto di discussione presso la Federal Communication Commission e di
un interessante dibattito negli Stati Uniti, che appartiene alla più vasta
famiglia dell'open source, del free software, che in questo caso
viene definito creative commons. Si propone di considerare le frequenze
e, più in generale, la rete un grande bene comune, come l'acqua e l'aria,
naturalmente prevedendo forme regolatorie da parte dell'autorità pubblica.
Tuttavia, proponiamo anche che una quota dello spettro radioelettrico delle onde
radio - non solamente le vecchie frequenze analogiche o digitali, ma anche la
nuova filiera del Wireless, Wi-Fi, Wi-Max -sia affidata alle autonomie locali,
affinché non ne gestiscano in proprio la collocazione nel sistema, ma si
rendano trait d'union ed interpreti di quel mondo associativo e creativo
che potrebbe trovare possibilità di espressione.
Non innovo niente rispetto al dibattito estremamente interessante che si svolge
negli Stati Uniti, ove si propone persino di lasciare libera una parte dello
spettro facendola autoregolamentare, fatte salve le compatibilità
radioelettriche. Ma esiste una normativa in Belgio - paese europeo - per cui una
quota è dedicata alla parte non strettamente legata a logiche mercantili del
sistema tecnico, rappresentando un bene comune ad uso di quel processo di
innovazione oggi molto più veloce di quanto si potesse immaginare non 20, ma
anche solo 2 o 3 anni fa. Ritengo che pochi, anche in questa sede autorevole e
specializzata, avrebbero potuto supporre solo 2 o 3 anni fa che un gruppo di
ragazzi, cui nei convegni nessuno dava ascolto, diventassero Google.
L'evoluzione è così veloce che talvolta il nostro stesso dibattito stenta a
prenderne atto linguisticamente.
Nella normativa è quindi opportuno inserire delle opportunità di apertura. Le
autonomie locali possono essere - questo è anche il loro senso quasi ontologico
- il punto di riferimento di queste nuove opportunità, non per agire
direttamente o con un piano centralizzato localmente, ma per svolgere un ruolo
fondamentale nel passaggio che si sta determinando.
Vorrei infine aggiungere una considerazione che riguarda le province e
soprattutto quella parte delle autonomie locali che spesso nel dibattito corre
il rischio di essere considerata minore. Tralascio qui ogni valutazione su un
dibattito istituzionale che si svolge altrove, però desidero sottolineare come
proprio in questo campo si evinca un ruolo possibile dell'istituzione
provinciale come luogo di coordinamento, di progettazione,ovvero un ente di
secondo grado che possa dare voce e chance a molti comuni che,
altrimenti, avrebbero difficoltà a individuare modelli organizzativi.
In uno schema interessante, se il legislatore lo ritiene opportuno, si può
approfondire - potremo essere più puntuali in una memoria articolata anche
sotto il profilo normativo - questo capitolo, che non è il capitolo aggiuntivo
talvolta inserito in qualche normativa, ma è essenziale per configurare
in modo ampio, democratico e aperto un sistema che altrimenti rischia di
essere paradossalmente centrato e incapace di seguire adeguatamente la
contemporaneità.
Da questo punto di vista, in conclusione, lo stesso digitale - il disegno di
legge indica la «fase di transizione alla tecnologia digitale» - affinché non
rimanga solo una transizione come altre tecnologie, ma diventi la tecnologia
vincente, ha bisogno di non essere esclusivamente televisione, bensì punto di
riferimento per un complesso comunicativo assai più ampio e articolato. Con
umiltà e assoluta convinzione ritengo che questa sia una delle funzioni
peculiari delle autonomie locali e delle province italiane.
FELICIANO POLLI, Vicesindaco di Terni e responsabile per l'innovazione
dell'ANCI. Per quanto riguarda alcune considerazioni generali, emerge una
condivisione dello sforzo che dovremo compiere per lo sviluppo dei comuni
chiamati ad un protagonismo utile ai territori e al paese. Sarò estremamente
schematico, condividendo alcune affermazioni dell'assessore Vita.
Il nostro orientamento è nel senso di considerare complessivamente positiva
l'impostazione del disegno di legge, anche perché auspichiamo si possa
sviluppare un pluralismo a livello di paese e anche di territori, punto di
partenza debole che necessita di crescita.
Condividiamo anche l'esigenza di proiettare lo switch-off in avanti, al
30 novembre 2012, nella speranza di riorganizzare il sistema, e pertanto
consideriamo positivamente la proposta e auspichiamo la definizione di regole
certe per la gestione del lungo periodo di transizione.
Registriamo però una carenza di indicazioni concernenti le esigenze delle
autonomie locali; si tratta di un dato che vorremmo fosse colto e posto al
centro dell'attenzione per
valutare eventuali interventi in questa direzione. A noi premono la crescita
dei territori e la partecipazione dei cittadini. In alcuni comuni, la
televisione trasmette unicamente le sedute del consiglio comunale, mentre
auspichiamo che nella fase che si sta aprendo i comuni possano sviluppare questo
rapporto come elemento di democrazia che si arricchisce nel territorio.
Da questo punto di vista, ci interesserebbe molto un rafforzamento del legame
fra servizio pubblico radiotelevisivo e territori, attraverso strumenti da
costruire, perché un'azione è già in atto ma questa è la fase in cui - come
rilevato dall'assessore Vita - è necessario creare condizioni, senza affidare
nulla al caso.
Riteniamo molto importanti anche la crescita e l'innovazione delle emittenti
radiotelevisive locali, che ci interessano indirettamente ma in modo profondo,
perché queste, che spesso nel territorio mancano o sono prive di mezzi
adeguati, potrebbero diventare protagoniste della crescita dei territori e
quindi strumenti di dialogo e di conforto per le autonomie.
Questa materia ci riguarda indirettamente, ma è molto interessante per lo
sviluppo e la crescita dei territori.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.
PAOLO ROMANI. Molto velocemente, vorrei chiedere chiarimenti per quanto
concerne la citazione del famoso articolo 5, comma 1, lettera b) del
testo unico della radiotelevisione, che impedisce ad enti locali, ad enti
pubblici, anche economici, a società a prevalente partecipazione pubblica di
essere proprietari di reti o fornitori di contenuti.
Non ho inoltre compreso le considerazioni del vicesindaco di Terni riguardo ad
un nuovo rapporto fra radiotelevisione ed enti locali.
Ritengo quindi che se un'emittente locale avesse ascoltato i vostri interventi
di oggi, avrebbe nutrito qualche perplessità. Se non ricordo male, la norma sul
divieto assoluto agli enti locali di fornire contenuti e di essere proprietari
di impianti fu votata quasi all'unanimità. Non ho dunque capito se la vostra
sia una richiesta di modifica dell'articolo 5, comma 1, lettera b), nel
quale si impedisce agli enti locali di essere produttori di contenuti, chiedendo
quindi, nelle more di questo disegno di legge, che complessivamente condividete,
di inserire una leggera apertura in questo senso. Non si comprende altrimenti
cosa significhi la proposta di un nuovo rapporto, citata dal vicesindaco.
Abbiamo una quantità elevata di televisioni locali, reputata eccessiva da
taluni, e lo stesso Vita, quando era sottosegretario, sottopose al Parlamento
l'ipotesi del trading delle frequenze, che tendeva alla semplificazione
del settore, perché si auspicava di ridurne il numero attraverso il trading,
giungendo a una per provincia o non più di qualcuna per regione, non certamente
una per comune o decine e decine per regione. Forse esso avrebbe potuto
semplificare anche i rapporti fra gli enti locali e le televisioni sul
territorio. In proposito vorrei essere rassicurato, perché ho colto frasi
eccessivamente generiche rispetto al punto che avete adesso esposto.
Infine, ritengo, assessore Vita, che Wi-Max e Wi-Fi costituiscano il passaggio
automatico al digitale, non una tecnologia che è possibile abbandonare, come
accadde con l'alta definizione 15 anni fa (oggi si sta nuovamente attuando e
forse avrà successo). Il passaggio al digitale è un processo automatico della
tecnologia, perché se fra 15 anni, in Italia, fossimo ancora in analogico,
saremmo in un paese del terzo mondo.
Per quanto riguarda la legge n. 66 del 2001, lei allora era al Governo e quindi
la scadenza del 2006 fu stabilita da voi.
Digitale non vuol dire solo televisione, e, giustamente, quando parla di
Wi-Fi e Wi-Max, lei introduce anche qui una democrazia di prossimità, termine
utilizzato da qualche suo collega della Valle d'Aosta, che condivido, perché
significa contatto diretto fra cittadino e istituzioni, ovvero possibilità di
interloquire quotidianamente. Un decoder interattivo può svolgere anche
questo servizio, mentre attraverso la tecnologia Wi-Max sicuramente si genera un
processo di interattività ancora più forte, più importante, più
responsabile, più attivo, più presente.
Vorrei sapere se gli enti locali intendano garantire il proprio contributo anche
su questi punti fondamentali come strada parallela del processo di
digitalizzazione della televisione.
EMERENZIO BARBIERI. Vorrei rivolgere alcune domande sia all'assessore Vita, sia al dottor Polli,il quale viene qualificato come «vicesindaco di Terni e responsabile politico per l'innovazione».
PRESIDENTE. Sarà per le politiche!
EMERENZIO BARBIERI. Ecco, appunto. Forse sarebbe preferibile un'osservazione
più attenta degli appunti.
Non se ne abbia a male, assessore Vita, ma ritengo che l'abolizione delle
province sarebbe un vantaggio per il sistema paese e per le finanze pubbliche.
Vorrei porre tre domande. In primo luogo, non ho capito che cosa dovrebbe essere
affidato agli enti locali. Ho tentato di seguire il suo intervento, ma le
confesso, assessore Vita, che avrei preferito un appunto scritto, e non il
comunicato stampa che lei fornisce ai giornali per informarli della sua
audizione, aspetto che non ci interessa e che denota anche, se mi
permette, una leggera mancanza di rispetto. Non ho compreso dunque che cosa
dovrebbe essere affidato agli enti locali, né, in secondo luogo, perché e in
cosa dovremmo prendere esempio dagli Stati Uniti.
In terzo luogo, lei ha fatto riferimento al disegno di legge Gentiloni: vorrei
capire, a fronte dei suoi rilievi, se il Governo vi abbia consultato prima di
presentare il provvedimento. Lei, infatti, ha formulato un'osservazione
aggiuntiva rispetto al disegno di legge Gentiloni anche condivisibile, ma
giudicherei davvero strano se il Governo, che considera fondamentale il rapporto
con gli enti locali, non vi avesse consultato.
Per quanto riguarda il vicesindaco Polli, ringrazio l'ANCI di aver predisposto
una nota per iscritto, in cui però ho individuato alcune contraddizioni. L'ANCI
scrive che «il legislatore ha cercato invano di identificare una disciplina
organica per l'uso del mezzo radiotelevisivo (...)». Vorrei sapere se il
termine «invano», vicesindaco Polli, esprima un giudizio dell'ANCI. Infatti,
presidente Meta, non si sa se sia stato votato un documento in consiglio
direttivo o si esprimano invece opinioni personali, perché questa mi pare
un'affermazione francamente imbarazzante e, almeno per quanto mi riguarda, di
non facile comprensione.
Considero ancora più grave un'altra affermazione, secondo cui la legge Mammì,
la legge Maccanico e la legge Gasparri tendevano a conservare gli equilibri
politici ed economici in atto. Ritengo, vicesindaco Polli, che lei sia stato
invitato per esprimere non giudizi politici, bensì le opinioni dell'ANCI.
Trovo davvero strano, inoltre, che l'ANCI accolga con apprezzamento l'iniziativa
parlamentare, considerato che questo è un disegno di legge del Governo, cui
solo la settimana prossima abbineremo una proposta di legge d'iniziativa
dell'onorevole Beltrandi.
Nell'appunto dell'ANCI si legge: «Tutto ciò nell'ottica di attivare strumenti
normativi in grado di favorire una »governance cooperativa« - termine
importantissimo per chi come me viene dall'Emilia - attraverso processi di
democrazia attiva e in base all'integrazione di due ruoli distinti (...)». La
pregherei di spiegarmi questa affermazione, perché ne ignoro il significato.
Sarei anche molto interessato a capire per quale ragione l'ANCI, che non ne ha
alcuna competenza, dichiari di condividere la proposta di posticipare al 30
novembre 2012 lo switch-off.
Leggo inoltre: «A tal proposito, sebbene non espressamente di pertinenza del
disegno di legge in esame, evidenziamo la necessità di un coinvolgimento delle
autonomie locali e delle loro associazioni (...)». Ormai, mi sembra desideriate
essere coinvolti in tutto - fra un po' ci sarà anche la richiesta di essere
coinvolti nel processo di formazione delle leggi - ma non capisco a cosa
dovrebbe mirare il coinvolgimento dell'ANCI, dato che non è stato spiegato né
nell'appunto né nel suo intervento.
Segnalo poi un altro passaggio enigmatico: «(...)L'ANCI ritiene necessario
costruire congiuntamente dei percorsi, per cui l'informazione pubblica
acquisisca un valore aggiunto per il mercato (...)». Riconosco la mia
insufficienza, ma non ho capito e le chiedo di spiegarlo.
Infine, quando l'ANCI chiede, nell'appunto scritto che ci ha consegnato, di
inserire le attività socialmente utili promosse da voi nei passaggi
promozionali gratuiti, non individuo alcuna connessione con il disegno di legge
Gentiloni, e ritengo si sia andati fuori tema.
NICOLA BONO. Devo ammettere che oggi l'onorevole Vita ci ha stupiti, perché è abituato a cominciare e terminare i suoi
interventi su questi argomenti criticando la legge Gasparri, mentre questa sera l'ha indirettamente esaltata.
VINCENZO VITA, Assessore della provincia di Roma e rappresentante dell'UPI. Mi sono attenuto al ruolo che qui rappresento!
NICOLA BONO. Indirettamente l'ha esaltata, soprattutto nel citare le enormi
potenzialità - anche sul piano di un maggior coinvolgimento degli enti locali -
dell'introduzione del digitale terrestre. Si tratta di una delle parti centrali
del suo intervento, quindi prendo atto di una sua rivisitazione - forse
involontaria - per cui si riconoscono meriti e oggettive qualità di una norma
certamente perfettibile, ma che tuttavia costituisce una pietra miliare nel
riordino del sistema radiotelevisivo.
Concordo con i colleghi Romani e Barbieri, perché non ho capito il senso delle
richieste formulate oggi da parte degli enti locali, di cui prevedevo
innanzitutto una valutazione più critica della normativa; infatti, le
osservazioni e le ipotesi di lavoro rappresentate mancano di rilevare che questi
aspetti non sono inseriti nella norma, non perché non possano esserlo, ma in
quanto essa è mirata a definire e disciplinare solo alcuni aspetti che
interessavano politicamente la maggioranza. Mi riferisco, ad esempio, al mancato
inserimento della riforma della Rai in un provvedimento di riordino del sistema
televisivo.
Dovreste essere voi, come titolari di un'azione propositiva, a chiedere al
Parlamento l'estensione dello spettro di intervento della normativa. Non si
possono infatti avanzare proposte nel merito, così come sono state formulate,
partendo dal testo legislativo, che è volutamente limitato, parametrato su
alcuni aspetti, e in cui è normale che manchino le questioni
sollevate dagli enti locali. Questo era l'aspetto «politico» che andava
focalizzato, attorno al quale sviluppare un ragionamento.
Le chiedo, dottor Polli, perché l'ANCI ritenga giusto rinviare al novembre 2012
l'avvio della piattaforma del digitale terrestre. Da un lato, infatti, esso
chiede legittimamente che siano posti in essere significativi meccanismi di
coinvolgimento gestionale dei comuni, mentre poi riconosce l'opportunità di
rinviare l'entrata in vigore della piattaforma terrestre, che, come giustamente
rilevava Vita, costituisce la strada maestra per un coinvolgimento e per una
capacità di sinergia con gli enti locali stessi.
Chiederei inoltre una maggiore sostanza per individuare la chiave interpretativa
delle questioni sollevate, perché non sono affatto convinto, ad esempio, che si
debba essere titolari delle reti per intervenire sui loro contenuti. Si deve
dunque trovare un modo per cui gli enti locali esprimano le loro ipotesi di
lavoro, partendo dalla più appetibile, che potrebbe essere rappresentata da
forme di gestione che riducano la portata del contestato articolo 5, comma 1,
lettera b) della legge Gasparri, ovvero quelle forme che possano creare
capacità di rappresentare le associazioni culturali, di servizi, di
volontariato.
In conclusione, chiedo di definire meglio il ruolo che gli enti locali
vorrebbero fosse loro assegnato e di valutare come sia possibile introdurre
questi elementi mantenendo il testo così limitato nella portata. State parlando
di una legge che non c'è, perché la lamentela in ordine alla scarsa
considerazione delle vostre richieste, se non rapportata alla valenza della
norma, non risulta motivata, giacché, oltre alle vostre, mancano nel disegno di
legge molte altre ipotesi di lavoro altrettanto funzionali, così come più
volte ribadito dall'opposizione.
EMILIA GRAZIA DE BIASI. Desidero ringraziare i nostri ospiti ed esprimere
alcune considerazioni. La prima è in sintonia culturale con il ragionamento di
Vincenzo Vita, il cui concetto base - sul quale stiamo lavorando anche con il
testo di legge - consiste nella considerazione di come l'innovazione tecnologica
cambi non soltanto le modalità di accesso ma anche le modalità di
comunicazione.
Il secondo punto riguarda la diversificazione delle possibilità garantite non
soltanto dalla digitalizzazione, ma dall'insieme dell'universo multimediale, per
quel che riguarda i territori. Indubbiamente, esiste una possibile
moltiplicazione di opportunità. Centrerei il ragionamento non tanto sulla
comunicazione di carattere istituzionale, quanto sulle opportunità produttive
che vengono offerte in modo del tutto inedito dal punto di vista dei contenuti,
ma anche dal punto di vista della capacità di sollecitare energie culturali e
della comunicazione oggi ampiamente mortificate. Mi sembra infatti che lo
scenario multimediale, e in particolare la transizione al digitale, potrebbe
consentire di superare la concezione ormai desueta del sistema di comunicazione
come sistema federale, a vantaggio di una comunicazione a rete in grado di
coinvolgere e valorizzare i territori, indipendentemente dallo stretto confine
di carattere istituzionale.
Ritengo che non solo le province, ma anche le regioni debbano giocare un ruolo
in questo campo e che il rapporto con la Conferenza Stato-regioni sia essenziale
per ridefinire i compiti e le possibilità di un ente locale.
È necessario lavorare sulla definizione del ruolo del soggetto coordinatore
istituzionale, perché siamo a cavallo tra esigenze e possibilità di mercato
della produzione culturale e una modalità di comunicazione del tutto inedita da
parte delle istituzioni, non circoscrivibile entro il concetto della classica
comunicazione istituzionale, visto che emerge la possibilità di utilizzare
anche l'interattività per creare un circuito comunicativo virtuoso tra le
istituzioni e i cittadini. Ritengo quindi che il lavoro consista nel definire il
soggetto coordinatore di ciascun territorio. Poiché sono stati citati
finanziamenti per i diversi territori e le diverse istituzioni locali, vorrei
sapere se sia già in atto una valutazione al fine di promuovere esperienze del
genere.
Con Vincenzo Vita abbiamo lavorato molti anni sull'obiettivo di valorizzazione i
territori dal punto di vista della comunicazione ed è sempre stato un compito
molto difficile, perché storicamente in Italia sia le imprese di mercato che
quelle più legate al servizio pubblico hanno mantenuto la nota rigidità
definita «duopolio». Ritengo sia stata anche una forma di protezionismo, perché
la stessa contrapposizione fra un'idea innovativa di questa natura e il pericolo
per l'emittenza locale testimonia l'esigenza di aprire e liberalizzare questo
sistema, se vogliamo che esso non sia solo lanciato dal mercato, ma abbia un
senso per quanto riguarda la vita dei cittadini dei diversi territori. C'è un
versante di produzione culturale televisiva legata alla convergenza e un altro
versante che interessa il servizio pubblico - ma non solo - concernente la
relazione con i cittadini. Vorrei conoscere dunque il grado raggiunto con le
sperimentazioni.
DAVIDE CAPARINI. Depurando le relazioni e gli interventi degli auditi dalle valutazioni meramente politiche e dalle adesioni ai compagni di coalizione, vorrei capire quali siano le
rivendicazioni avanzate dai rappresentanti degli enti locali su un testo che
su di loro avrà evidenti ripercussioni.
Innanzitutto, desidero conoscere la posizione riguardo all'ente locale che
diventa fornitore di contenuti e addirittura editore, materia su cui abbiamo
discusso più volte e si sono sempre scontrate, anche in questa sede, diverse
visioni, tra le quali vi è quella per cui la delega alla rappresentazione degli
enti locali viene data all'emittenza locale attraverso un sistema di sovvenzione
che ripara le strutture dal mercato e attraverso la possibilità da parte degli
enti locali di finanziare il mondo dell'emittenza locale con una pianificazione
istituzionale a vari livelli.
Ora si sta facendo un salto logico che potrebbe essere devastante per il sistema
dell'emittenza locale: consentire agli enti locali di diventare attori e
soprattutto editori. Vorrei quindi individuare le posizioni, perché ognuno
risponderà delle proprie affermazioni - l'ANCI, rispetto alle migliaia di
editori locali che recepiranno con interesse queste proposte - giacché si
tratta di smantellare completamente un sistema per sostituirlo con un altro.
Dopo anni di lotte per una Rai privatizzata, sento proporre una serie di piccole
Rai con un dominio incontrastato del pubblico, pagate con i soldi del pubblico,
che fanno concorrenza alle emittenti locali, punto dirimente su cui esigerei una
chiarezza assoluta. Sia UPI che ANCI rivendicano questa necessità di maggiore
autonomia e protagonismo a livello dell'emittenza locale.
La relazione del dottor Polli si rivela contraddittoria, perché se si concorda
con il principio generale di posticipare lo switch-off al 30 novembre
2012, non si può sostenere subito dopo che sia essenziale non dimenticare il
valore del digitale terrestre, perché o lo si posticipa o si fa di tutto per
attuarlo
e, poiché la norma oggi prevede uno switch-off anticipato rispetto al
2012, le due affermazioni sono leggermente in contrasto.
Vorrei sapere però se la posizione dell'ANCI sia condivisa da tutti i comuni,
per cui la maggioranza di essi avrebbe votato un documento che prevede la
concorrenza alle emittenti locali e quindi l'esigenza di sottrarre loro le poche
risorse di cui godono, che le inducono a fronteggiare affannosamente la
concorrenza della Rai, spostatasi sul mercato locale attraverso le convenzioni
previste dalla legge Gasparri, su cui abbiamo tentato di apportare correttivi in
sede di modifica del contratto di servizio.
SILVANO MOFFA. Vorrei fare una premessa, soprattutto in riferimento al
documento dell'ANCI. Ringrazio l'ANCI per aver sottoposto alle Commissioni un
documento scritto e l'assessore Vita per aver svolto delle considerazioni che
prefigurano scenari diversi e sicuramente affascinanti, almeno sotto il profilo
dell'approfondimento culturale, per quanto attiene al sistema televisivo nel suo
complesso.
La premessa è di ordine metodologico, perché quando un'associazione -
soprattutto l'Associazione dei comuni italiani - viene invitata in Commissione,
ci si attende un suo intervento di natura tecnica che rappresenti il sistema
delle autonomie locali e, in riferimento alla normativa in esame, fornisca
indicazioni esatte, in grado di individuare esattamente il ruolo dei comuni
rispetto alla riforma in oggetto.
Poiché ho avuto in passato responsabilità all'interno dell'ANCI, mi sembra
francamente di riscontrare una deriva di
ordine politico che non giova neppure ad essere autorevoli nel momento in cui
si sottopone alle Commissioni un documento di questo tipo. Pertanto, al pari del
collega Caparini, cercherò di depurare da considerazioni politiche il suo
documento, per cercare, invece, di porle due domande.
La prima questione riguarda la richiesta di protagonismo degli enti locali nel
sistema della comunicazione, problema antico, che non viene trattato all'interno
di questo provvedimento, perché - e qui forse avrebbe dovuto essere espressa
una coraggiosa valutazione politica da parte dell'ANCI - il ministro Gentiloni
Silveri ha escluso la possibilità di far accompagnare questo disegno di legge
dal più ampio e articolato provvedimento legislativo riguardante la riforma del
sistema radiotelevisivo e della Rai. Mentre l'assessore Vita, con grande onestà
intellettuale, ha sostenuto che questo è un disegno incompleto, perché non
prevede la parte di riforma che può articolare una presenza del sistema delle
autonomie locali nell'ambito della comunicazione, l'ANCI invece, in maniera
molto netta, non interviene su questo argomento.
Qui rilevo una profonda contraddizione: sarebbe stata necessaria una
sottolineatura critica perché, se i comuni italiani intendono assumere un ruolo
all'interno del sistema delle comunicazioni, avreste dovuto chiedere in maniera
esplicita che questo provvedimento si bloccasse e fosse inserito in un sistema
di più ampia riforma. La denuncia politica in questo caso sarebbe stata davvero
pertinente.
Nel momento in cui l'ANCI ritiene necessaria una diversa articolazione, anche in
termini di protagonismo, come fornitore di contenuti da parte degli enti locali,
mentre la provincia sostiene la tesi di una riserva di frequenze, entro le quali
dovrebbe perimetrarsi un ambito per il sistema provinciale -
di cui valuteremo la possibilità -, vorrei chiedere come e con quali risorse
gli enti locali prefigurino di compiere questo percorso.
Mi permetto una sottolineatura, assessore Vita. Lei ha prefigurato un sistema
molto aperto e molto interessante, citando un dibattito molto acceso negli Stati
Uniti, ma le faccio osservare che quello americano è un sistema completamente
liberalizzato, dove non c'è alcun divieto, assolutamente diverso dall'ambito su
cui viene ad incidere questo provvedimento sul digitale terrestre, in cui esiste
una serie di limitazioni, di divieti e di sanzioni.
Apprezzo il suo sforzo riformatore e riformista, oggi molto isolato nella
sinistra italiana, ma possiede una sua logica se è conseguente e coerente con
questa impostazione e con questo disegno di legge. Mi chiedo come questa sua
elaborazione di una presenza della provincia - valuteremo poi funzioni e
competenze, e nutro riserve sul fatto che l'UPI possa averne altre addirittura
nel campo delle frequenze televisive - sia conciliabile con quello di cui stiamo
discutendo, che è un sistema assolutamente vincolistico, rigido e che per il
digitale terrestre, come sottolineato da alcuni colleghi, proroga persino la
data, rallentando un processo - da lei auspicato - di accelerazione nell'uso
delle tecnologie avanzate, che costituisce la sfida del futuro.
Sottolineo dunque alcune palesi contraddizioni e noto un vuoto di proposta - che
mi auguro possa essere colmato - nell'individuare il ruolo degli enti e delle
autonomie locali all'interno del disegno di legge in esame.
GIORGIO MERLO. Sarò molto breve, rivolgendo una sola domanda all'onorevole Vita. Nella proposta formulata nell'ultima parte del suo documento - molti colleghi l'hanno già affrontata - lei ha introdotto un tema molto scivoloso.
Recentemente in Piemonte è emersa una proposta altrettanto singolare: un
terzo dei proventi del canone Rai verrebbe trattenuto dal livello regionale
anche con l'obiettivo di favorire un maggior ruolo del servizio pubblico, forse
attraverso un canale guidato dalla regione - quindi con il rischio di piegare
l'informazione sul livello istituzionale - quasi eterodiretto.
Dicevo che lei ha introdotto un tema scivoloso, perché il problema
dell'informazione istituzionale, così posto, rischia di trasformarsi in un
boomerang per quanto riguarda la correttezza, l'imparzialità e il pluralismo
dell'informazione. L'offerta multimediale è già sufficientemente ricca,
variegata, pluralistica e forte, e la revisione di quel decreto legislativo per
fornire un ulteriore strumento all'ente locale rischierebbe potenzialmente di
impoverire la stessa informazione, a danno di un pesante condizionamento
istituzionale.
Mi pare che se si vuole perseguire questo elemento esso vada prontamente
spiegato, perché altrimenti si innesca un meccanismo difficilmente governabile,
che rischia di stridere con il rispetto scrupoloso dei principi del pluralismo
informativo. A me non pare che questa sia la proposta dell'UPI, ma sono curioso
di saperlo, anche perché proprio su questo tema l'ANCI fino ad oggi non ha
assunto una posizione ufficiale.
PRESIDENTE. Do nuovamente la parola ai nostri interlocutori per una replica.
VINCENZO VITA, Assessore della provincia di Roma e rappresentante dell'UPI.
Ritengo che si debba comprendere il tono e il senso di questo nostro confronto,
cui personalmente riconosco un peso istituzionale.
Mi permetto di fare questa sottolineatura perché, se dipendesse semplicemente
da me, avrei motivo di replicare in toni accesi ad alcuni interventi, mentre
preferisco tacitarmi in
quanto - come ha colto l'onorevole Bono - sento di rappresentare con serietà
un'organizzazione. I temi espressi non sono frutto di considerazioni
estemporanee, e mi permetto pertanto di chiedere di considerarli parte della
realtà costituzionale italiana, che ritiene di poter esprimere - giuste o
sbagliate che siano - le proprie considerazioni in materia.
Mi dolgo - e chiedo scusa a voi tutti - del fatto che, a causa della fretta, la
nota contenga la dicitura «comunicato stampa» e vi chiedo di tralasciare tale
indicazione che, anche in considerazione dell'ora, non ha alcuna motivazione.
Essa contiene tuttavia sinteticamente le proposte dell'UPI, che qualcuno forse
vorrebbe sciogliere. Onorevole Barbieri, mi perdoni di averla chiamata collega,
forse in un eccesso di euforia identitaria, che nel caso in questione non
esiste. La invito però ad avere rispetto per l'associazione che qui
rappresento, l'UPI, un rispetto che merita perché rappresenta numerose province
italiane, e che ha in corso una fase di dibattito e di riassetto delle autonomie
locali, tema estremamente rilevante, di valore costituzionale.
Per quanto concerne le questioni emerse, ringrazio tutti voi, perché sono qui
per prendere appunti, ascoltare ed anche - come sanno coloro che hanno avuto
occasione di dialogare con me in altre circostanze - per farmi convincere,
laddove sia possibile.
Innanzitutto va chiarito il punto essenziale, posto da diversi onorevoli, su cui
è emersa un'ambiguità, che cerco di chiarire, perché si tratta di un tema non
semplice sotto il profilo di un'eventuale cattiva pratica, che però tralascio
parlando invece del presupposto formale. L'ipotesi che ho qui rappresentato e
che ritengo condivisa anche dall'ANCI costituisce un tema dibattuto in diverse
circostanze, sebbene senza averne ancora definito i dettagli.
Questo tema dell'abrogazione della lettera b) dell'articolo 5 - posto
dall'onorevole Romani, poi ripreso dagli onorevoli Caparini, Barbieri e Merlo -
deve essere chiarito, perché la proposta non consiste nel consentire alle
autonomie locali ciò che peraltro già la legge n. 223 del 1990 vietò loro,
ovvero di fare televisione in senso classico. Ritengo infatti che nessuna delle
associazioni - parlo a nome dell'UPI, ma suppongo sia un'opinione diffusa -
abbia interesse, intenzione e anche risorse per diventare editore televisivo.
Desidero sgombrare il campo da ogni ambiguità su questo argomento, perché so
quanto siano attente le associazioni delle emittenti locali sul tema
estremamente delicato della concorrenza.
Certamente, onorevole Merlo, condivido le sue perplessità riguardo
all'iniziativa piemontese, e ancor meno auspico un'informazione istituzionale,
che sarebbe un modo surrettizio di autopropagandarsi nel sistema. Qui si tratta
di una cosa del tutto diversa e specifica, che l'onorevole Moffa in parte ha
colto, ovvero di considerare come nell'innovazione dei sistemi, nel loro
carattere sempre più polimediale e nell'intreccio tra i diversi mezzi, sia oggi
ragionevole che, poiché tutti sono almeno potenzialmente fornitori di
contenuti, possano esserlo anche le autonomie locali. Esiste una varietà di
sensori nella nostra società di informazione che permette a gruppi o a singoli
di fornire contenuti: basti pensare ad alcuni casi estremi, amari, come
un'esecuzione fotografata con un cellulare e altre pessime pratiche in atto in
qualche settore giovanile.
Si tratta dunque di immaginare le autonomie locali come possibili fornitori di
contenuti, quindi non di un'abrogazione tout court, ma di una correzione
della norma.
Quando, ad esempio, il CNIPA con il Governo precedente redasse il bando nei
comunicati dell'e-government proprio
sulla televisione digitale terrestre, la provincia di Roma, con il comune di
Roma e con la regione Lazio, partecipò e vinse in una campionatura di 800
famiglie non abbienti, collocate nelle zone periferiche della metropoli,
l'utilizzo di una televisione digitale non in chiave televisiva ma in chiave di
servizi.
A questo si intendeva ricollegarsi, ovvero alla considerazione di come la
dizione alla lettera dell'articolo 5 impedisca alle autonomie locali di svolgere
un ruolo di servizio per i cittadini.
Il testo intervenne successivamente e noi rilevammo la contraddizione, che non
fu negata e deve essere sanata. È un paradosso che bandi del Governo rischino
di entrare in contraddizione con un testo unico, per un ribadire dopo 15 anni
una vecchia norma della legge n. 223 del 1990. Ritengo quindi che vada
rielaborata, non per sostituirsi all'emittenza, ma per garantire un ampliamento
di quella che definiamo e-democracy, ovvero l'opportunità di allargare
il campo anche interattivamente con sperimentazioni condotte sul campo. Non
saprei valutarne l'eventuale successo pratico, ma ritengo un errore non
sperimentare una simile opportunità.
Ciò è tuttavia lontano dall'antica tentazione delle regioni, di qualche grande
comune e forse di qualche provincia di realizzare una propria emittente, laddove
l'obiettivo è invece seguire opportunamente l'innovazione tecnologica evitando
che le autonomie locali ne risultino gli anelli più deboli e periferici.
Sulla definizione formale del testo, possiamo lavorare meglio, perché mi sono
limitato a porre il problema e, d'altro canto, ritengo che l'audizione abbia il
compito di porre argomenti, permettere a voi di discuterne e di farne l'uso
migliore. Vi prego comunque di considerare questo non come un tema di mera
polemica ex post rispetto ad una legge, bensì come una proposta
positiva.
Anche l'altra proposta da noi formulata, oggetto di una opportuna richiesta di
chiarimento, non è improvvisata e - onorevole Moffa - non è collegata
all'antico tema delle regole, che mi riporta ad altre stagioni. Chiunque
desideri consultare le rules degli Stati Uniti o della Gran Bretagna si
imbatte in tomi impressionanti, al cui confronto la nostra normativa è un
bigino. In quei paesi, ancorché improntati al liberismo, le regole sono assai
più forti e cogenti di quanto siano qui. Ma questo ora ci porterebbe altrove.
Si intendeva affermare, come l'onorevole Caparini ha richiamato, una precisa
proposta operativa, ovvero che nella ripartizione delle risorse tecniche,
intrecciando il passaggio al digitale che moltiplica i canali da 4 a 8 per ogni
singola frequenza, alla fascia altissima dello spettro - Wi-Max e Wi-Fi, il
campo chiamato Wireless -, possa emergere una riserva di opportunità tecniche
autogovernate da soggetti che ne facciano richiesta - come avviene in altri
campi - con un ruolo di regolatore secondario delle autonomie locali. Nessuno
rivendica alle autonomie locali la possibilità di concedere una parte delle
licenze che non lo Stato non assegna, ma di poter contribuire a governare una
parte di - è il dibattito negli Stati Uniti - common goods, cioè beni
comuni, che non attiene alle grandi catene che entreranno in questo sistema -
concentrazioni, trust, gruppi di vario tipo - nelle varie sequenze e
nelle varie piattaforme.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
VINCENZO VITA, Assessore della provincia di Roma e rappresentante dell'UPI.
Sto concludendo, ha ragione, presidente. Questa proposta non è irrilevante.
Non si è entrati nel merito della questione Rai perché ci siamo attenuti al
testo in esame. Si può discutere poi se fosse più opportuno inserirla in
questo testo, ed esiste un'antica
proposta delle autonomie locali di rendere una delle reti federalista,
argomento cui sono particolarmente affezionato.
Spero di avere fornito chiarimenti in ordine a qualche sollecitazione degli
onorevoli intervenuti. Restiamo comunque a disposizione come UPI per fornire
eventuali materiali e specificazioni più precise, e rivolgiamo un augurio di
buon lavoro per la necessaria riforma che state discutendo.
FELICIANO POLLI, Vicesindaco di Terni e responsabile per l'innovazione
dell'ANCI. Sarò breve perché sulla presunta intenzione di diventare
editori ha fornito una risposta - che in gran parte condivido - l'assessore
Vita, a cui aggiungerei il nostro auspicio che, in un mercato che diventa più
ricco di risorse e più pluralista a livello locale, esistano strumenti locali
in grado di funzionare meglio e, quindi, di realizzare un sistema migliore, che
arricchisca il territorio culturalmente, economicamente, democraticamente, nel
senso della partecipazione. Il comune, ad esempio, non può trasmettere solo le
sedute del consiglio comunale, ma nella nuova fase deve promuovere
un'interattività.
Lo spirito, l'obiettivo e le intenzioni dell'ANCI, nonostante alcune questioni
affrontate in maniera frettolosa, non sono una rappresentanza di una parte,
sebbene possano essere emersi elementi che abbiano prodotto questa sensazione,
che tuttavia respingiamo, pronti a predisporre un documento più puntuale, anche
alla luce delle considerazioni espresse nella seduta odierna.
Per quanto riguarda i giudizi tecnici, questione cui si è precedentemente
accennato, mi preme sottolineare che non siamo un organo tecnico, bensì una
rappresentanza istituzionale di comuni, e, ad esempio, sulla legge finanziaria
non forniamo giudizi tecnici, come ribadisco a qualcuno che forse vorrebbe
negarci la facoltà di esprimere giudizi politici.
Desideriamo esprimere invece orientamenti politici secondo l'obiettivo e il
punto di vista dei comuni, laddove siamo perfettamente consapevoli di non
rappresentarne solo una parte con un particolare orientamento, perché una
rappresentanza parziale non avrebbe alcun valore. Ci sforziamo dunque di
rappresentare tutti e quindi, come rispettiamo questo vostro consesso, così
vorremmo anche essere rispettati.
Come dicevo inizialmente, vi invieremo un nuovo documento scritto. Peraltro, il
documento che avete ricevuto era stato corretto proprio in alcune parti oggetto
di particolare attenzione. Tuttavia, quando abbiamo approfondito alcune
questioni, purtroppo il documento con il testo iniziale non emendato era già
stato inviato, e di questo non posso che dispiacermi.
PAOLO ROMANI. Allora lo ritirate?
FELICIANO POLLI, Vicesindaco di Terni e responsabile per l'innovazione dell'ANCI. Lo integriamo con ulteriori elementi di chiarimento e di arricchimento, anche alla luce di quanto emerso nella discussione di questa sera.
PAOLO ROMANI. Signor presidente, in base alle ultime dichiarazioni del vicesindaco Polli, questo documento non viene acquisito agli atti delle Commissioni riunite, in attesa di un altro documento. Ho capito bene?
PRESIDENTE. Penso di sì.
FELICIANO POLLI, Vicesindaco di Terni e responsabile per l'innovazione dell'ANCI. Sì, è così.
PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti dell'ANCI e dell'UPI, che ci hanno
proposto spunti e suggerimenti. Si è trattato di una tra le audizioni più
lunghe, a dimostrazione dell'utilità dell'iniziativa.
Dichiaro conclusa l'audizione e sospendo brevemente la seduta.
La seduta, sospesa alle 19,50, è ripresa alle 20.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva
sul disegno di legge C. 1825, recante disposizioni per la disciplina del settore
televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale, l'audizione di
rappresentanti di Confindustria servizi innovativi e tecnologici.
La delegazione è composta dall'ingegner Alberto Tripi, presidente di
Confindustria servizi innovativi e tecnologici, dal dottor Luigi Perissich,
direttore generale, e dall'ingegner Antonello Busetto, direttore affari
istituzionali.
Do la parola all'ingegner Alberto Tripi per lo svolgimento della relazione.
ALBERTO TRIPI, Presidente di Confindustria servizi innovativi e tecnologici. Confindustria servizi innovativi e tecnologici rappresenta le aziende di informatica, di telecomunicazioni, della radio e della televisione che aderiscono a Confindustria. Si tratta di circa 13 mila aziende. La nostra azione è sempre precompetitiva, quindi per quanto riguarda la competizione
fra aziende - estremamente forte nel settore - è necessario far riferimento
alle posizioni delle singole aziende.
Pur non essendo mia abitudine, poiché il tema è estremamente delicato,
desidero dare lettura di quanto convenuto con i nostri associati.
Confindustria servizi innovativi e tecnologici condivide l'obiettivo di una
transizione rapida ed ordinata dalla tecnologia analogica alla tecnologia
digitale e guarda con favore ed attenzione alle scelte che il Parlamento ed il
Governo si apprestano a varare in materia. Nella nuova federazione vi sono molte
componenti associative interessate al disegno di legge presentato dal Governo:
basti ricordare la Rai e le televisioni private nazionali e locali, gli
operatori di telecomunicazione su rete fissa e su reti mobili e gli operatori
Internet. Le tecnologie utilizzate da queste imprese sono tutte quelle
disponibili via etere e via cavo, di tipo terrestre e satellitare, in modalità
analogica e digitale.
Intendiamo soffermarci su alcuni punti del disegno di legge che toccano gli
interessi delle imprese da noi rappresentate. Specifiche osservazioni e
posizioni differenziate saranno oggetto di contributi delle singole associazioni
che fanno parte della federazione, ed in modo più dettagliato e puntuale delle
imprese ad essa aderenti. Nel fornire il nostro contributo, che si affianca a
quelli presentati dai nostri associati, sottolineiamo la complessità della
materia che, in relazione ai fenomeni di convergenza ed evoluzione tecnologica,
richiede una normativa chiara e snella, che definisca i principi e gli aspetti
fondamentali, lasciando il più possibile al mercato e ad autorità indipendenti
di settore il compito di seguirne gli sviluppi ed i necessari aggiustamenti.
Per il sistema delle imprese, chiamate a programmare un massiccio ciclo di
investimenti per la migrazione al digitale, è
indispensabile che la legge assicuri stabilità e certezza, con regole chiare
ed applicabili. Le disposizioni del provvedimento sulle quali intendiamo
esprimere il punto di vista della federazione riguardano la tutela della
concorrenza ed il pluralismo, le risorse frequenziali, lo switch-off, le
emittenti locali, la larga banda, le risorse pubblicitarie ed i contenuti.
Per quanto concerne la tutela della concorrenza e il pluralismo, i criteri
ispiratori dell'iniziativa legislativa governativa, che intende anche rispondere
ai rilievi della Commissione europea sulle normative vigenti in materia, devono
mirare a creare un mercato aperto, pluralista e fortemente basato sulla
competizione fra i diversi soggetti, dove prevalgano sugli aspetti quantitativi
quelli legati alla qualità dei servizi offerti. Per garantire una corretta
tutela della concorrenza, riteniamo determinante il ruolo delle autorità
indipendenti maggiormente coinvolte per la regolamentazione del settore, ossia
l'Antitrust e l'Agcom, che possono assicurare la realizzazione di un mercato che
abbia condizioni di obiettività, trasparenza e non discriminazione.
Il mercato dell'informazione e dell'intrattenimento, una volta di prevalente
interesse delle imprese radiotelevisive e della stampa, oggi si apre alla
convergenza tecnologica di diversi media, e all'attività ex ante del
legislatore, tipica dei mercati tradizionali, e deve orientarsi sempre più
verso gli ambiti non concorrenziali, lasciando alle autorità indipendenti il
compito di intervenire nei settori più innovativi e concorrenziali. In questo
contesto, non dovrebbero esserci sovrapposizioni fra norme legislative e
regolamentazione dell'autorità indipendente di settore.
Il passaggio al digitale viene visto dalle imprese con favore per le opportunità
di ampliamento del mercato, che si creano non solo perché consente di veicolare
un numero di canali
cinque volte superiore all'analogico, con un conseguente abbassamento dei
costi e delle barriere all'ingresso, ma anche per una gamma di servizi
innovativi e di applicazioni riconducibili all'uso di tecnologie digitali ed
alla capacità interattiva propria di queste tecnologie.
L'introduzione del digitale terrestre non è solo un modo per avere più canali
per aumentare la concorrenza, ma anche per poter fornire ai cittadini servizi
interattivi diversi. Oltre che di e-government, si parla anche di t-government,
un modo affinché i cittadini possano avvicinarsi alla pubblica amministrazione
in una maniera interattiva molto più friendly rispetto ad altri veicoli.
Il punto importante, ai fini dell'ampliamento del mercato, è quello relativo
alla gestione delle maggiori risorse che vengono rese disponibili e alle
garanzie per tutti i potenziali soggetti interessati di accedere alla capacità
trasmissiva secondo regole e procedure stabilite dall'Agcom. Una volta garantito
l'accesso alla capacità trasmissiva, sarà necessario indirizzare le scelte di
operatori esistenti e dei nuovi entranti, in modo da accelerare la diffusione
delle tecnologie digitali anche presso le famiglie. Questo dovrebbe far venir
meno l'esigenza di recuperare le frequenze liberate e di riassegnarle per uso
analogico.
Un altro aspetto critico relativo alle risorse frequenziali è quello delle
regole per i meccanismi di trading che dovranno consentire, anche a
vantaggio di fornitori di contenuti, la massimizzazione della capacità
trasmissiva attraverso la possibilità di coordinamento tra operatori di rete.
In questo ambito, andranno opportunamente individuate le tecnologie di programmi
irradiabili da ricomprendere nel
calcolo del limite del 20 per cento, richiamato dall'articolo 2, comma 6,
evitando il rischio di disincentivare gli investimenti e rallentare la
traqnsizione verso il digitale.
Riteniamo che la data di switch-off fissata al 30 novembre 2012 rischi di
apparire troppo lontana e di rallentare gli investimenti. Si può ipotizzare una
data più ravvicinata, ma è più importante che venga predisposto un preciso
programma di switch-off, di spegnimento della televisione analogica, che
interessi tutto il paese e definisca nel dettaglio gli aspetti della fase
transitoria, compresi quelli, più difficili da affrontare, che riguarderanno 23
milioni di famiglie italiane. È interesse principale delle imprese che tale
programma sia impegnativo per evitare ritardi e garantire certezze al percorso
di transizione.
Individuando sulla base delle esigenze tecniche di trasmissione opportune aree
territoriali, si potrà realizzare la transizione in maniera graduale e
progressiva, a livello geografico, attraverso una calendarizzazione del
passaggio al digitale di quote di popolazione e di territorio omogenee, fino a
completa copertura. Le esperienze pilota della Sardegna e della Valle d'Aosta
dimostrano che lo switch-off per aree è un acceleratore anche dei piani
regionali per la larga banda, evidenziando come i processi di digitalizzazione
si sostengano a vicenda.
Il Comitato nazionale Italia digitale, istituito dal ministro delle
comunicazioni, composto da rappresentanti delle imprese televisive, degli
operatori di altre piattaforme e della Agcom, ha il compito di definire e
coordinare le attività necessarie alla realizzazione dello switch-off
nazionale. Il Comitato sta lavorando ad un piano cadenzato che interesserà,
ogni anno e fino al 2012, aree territoriali con popolazione di alcuni milioni di
abitanti. Solo con una tale programmazione si può governare la transizione
ordinata al digitale ed incrementare la progressione agli investimenti delle
imprese televisive.
Per quanto riguarda le emittenti televisive locali, con l'avvio del digitale
potranno nascere nuovi modelli di business derivanti dalla valorizzazione
della maggiore capacità trasmissiva e dall'introduzione di nuovi servizi, nonché
da un rinnovato rapporto con il territorio. Se da una parte questa è
un'opportunità anche per le emittenti televisive locali, esse dovranno
sostenere uno sforzo maggiore nella fase di transizione a causa di una scarsità
di risorse che non consente loro di operare in simulcast, analogico e
digitale, per un passaggio più graduale.
Nell'ambito della programmazione territoriale, per evitare di penalizzare
eccessivamente questa realtà, andrà ridotto il più possibile il tempo
intercorrente tra il passaggio in digitale delle prime reti e lo switch-off
definitivo. L'accelerazione dei tempi di conversione potrà consentire inoltre
di massimizzare le capacità trasmissive a disposizione delle emittenti ed un
loro efficace coordinamento.
Riallacciandosi a quanto già affermato in tema di tutela della concorrenza e
pluralismo, la regolamentazione per l'accesso alle infrastrutture a larga banda
dovrebbe essere garantita senza irrigidire l'evoluzione di un mercato che, anche
a seguito della cosiddetta convergenza tecnologica, si presenta a carattere
tipicamente concorrenziale. Sarà quindi compito delle autorità amministrative
indipendenti individuare le misure necessarie ad accompagnarne lo sviluppo,
secondo condizioni e criteri di obiettività, trasparenza e non discriminazione.
Per quanto riguarda il tetto alle risorse pubblicitarie, pur conoscendo
l'esigenza di stabilire norme, anche asimmetriche, che aiutino le imprese
televisive piccole e medie a competere
in tale mercato, si chiede al legislatore di adottare misure che non
determinino incertezze per gli operatori e non disincentivino la crescita della
dimensione delle imprese.
Il percorso scelto nel disegno di legge, ancorché a carattere transitorio, che
vieta di raggiungere o superare una quota dei servizi pubblicitari (che sono
un'importante fonte di introito per le imprese), non ci sembra l'unico per
raggiungere l'obiettivo, da noi condiviso, di favorire una maggiore competitività
nel mercato televisivo. L'esperienza di precedenti provvedimenti legislativi
dimostra altresì che l'imposizione di tetti invalicabili risulta spesso
difficilmente applicabile.
Secondo alcuni operatori televisivi, il possesso della rete da parte di un
editore non sarebbe più un fattore competitivo e anche l'Italia si potrebbe
avviare sulla strada di separazione fra attività editoriali e attività di
rete. È una proposta che le imprese stanno discutendo.
I fornitori di contenuti hanno interesse a concentrare i loro investimenti e la
loro offerta editoriale nell'acquisto e nella produzione di contenuti, «affittando»
la capacità trasmissiva, come avviene nei principali paesi europei.
La normativa deve lasciare questa evoluzione al mercato, evitando che il
possesso della rete possa costituire una barriera all'ingresso per potenziali
concorrenti e disciplinando il trading delle frequenze nel rispetto degli
accordi internazionali.
PRESIDENTE. La ringrazio, ingegner Tripi, per il suo contributo molto chiaro
ed esauriente.
Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare
osservazioni.
MARIO BARBI. Molto rapidamente, ringrazio per l'esposizione e per gli aspetti affrontati, sui quali è in corso un dibattito controverso. Abbiamo avuto interlocuzioni con i
rappresentanti delle due autorità citate, con le imprese, quindi non entro
negli aspetti più noti e più controversi del disegno di legge, quali la
pubblicità o i tetti.
Mi chiedo invece, visto l'invito a realizzare prima la transizione al digitale,
se lei, in base alla sua conoscenza del settore industriale, delle imprese che
lei rappresenta, dell'offerta e della domanda del mercato, possa fornirci
indicazioni sullo stato della diffusione del digitale terrestre. Le chiedo
inoltre suggerimenti su come dare seguito a questo auspicio da lei formulato.
PAOLO ROMANI. Ho ascoltato la relazione e letto con attenzione il vostro
documento. La polemica in atto è molto semplice, perché la maggioranza e il
Governo vogliono varare un provvedimento punitivo, laddove l'opposizione cerca
invece di sottolineare come dopo un certo lasso di tempo possa emergere la
necessità di un adeguamento della legislazione rispetto al settore. In questo
caso, invece, si vuole portare in Parlamento un provvedimento punitivo e
riduttivo, che prende in esame solo un ambito e tralascia tutto il resto.
La vostra relazione mi sembra andare invece in controtendenza rispetto
all'ispirazione del provvedimento del Governo e, ancora una volta, dalle aziende
- leggo nel documento scritto che ci avete fornito che rappresentate 102
miliardi di euro di fatturato, parte consistente del patrimonio industriale ed
economico italiano - emerge una relazione molto contenuta, rappresentativa
dell'ispirazione che cerchiamo di manifestare, ovvero l'estrema difficoltà di
intraprendere una nuova iniziativa legislativa settorializzando il rinnovamento.
Altrimenti si riesamina tutto e si parla di digitale, di banda larga, di
emittenti locali, di processi di digitalizzazione - voi giustamente evocate le
aree All Digital, che sono state un esperimento complicato, difficile,
non concluso, ma positivo -,
del problema del digital divide, che non avete toccato ma che
probabilmente avreste voluto trattare.
Vi chiedo quindi se riteniate opportuno intervenire su questo settore con
un'apertura verso il futuro, complessiva, a largo spettro, che riguardi tutti i
settori della comunicazione.
EMERENZIO BARBIERI. Anch'io vorrei porre un'unica domanda. Condivido gran parte di quanto ho letto e mi sembra che le considerazioni iniziali del collega Romani abbiano puntualizzato bene la questione, ma ritengo che questo contributo sia importante anche per il presidente Meta e per la maggioranza. Vorrei chiedere se il Governo, prima di predisporre il disegno di legge, abbia consultato Confindustria.
PRESIDENTE. Do nuovamente la parola all'ingegner Alberto Tripi per una replica.
ALBERTO TRIPI. Presidente di Confindustria servizi innovativi e
tecnologici. Cercherò di dare una risposta complessiva, senza entrare nel
dibattito, molto interessante, tra opposizione e maggioranza.
Esiste un dato che forse a molti sfugge: la popolazione italiana è più
assetata di tecnologia di quanto si pensi. Svolgiamo ogni anno uno studio
completo, chiamato e-family, che indaga su come la famiglia italiana di
tutti i ceti, di tutte le categorie, del nord e del sud, accetti le innovazioni
tecnologiche; da tale studio emerge come, dal punto di vista dell'utilizzazione
delle tecnologie in famiglia, siamo a livelli non inferiori a quelli europei.
Non si tratta solo di una questione di moda, che gli americani definiscono nice
to have, ma di una questione di utilizzo di queste tecnologie. Non bisogna
sempre citare i parenti più anziani, che hanno difficoltà ad usare il
telecomando, perché in realtà il nostro
paese è costituito da persone in linea con le moderne tecnologie.
Questo significa che, per quanto concerne il digitale terrestre, per
l'esperienza maturata anche dalla mia azienda che si occupa informatica, si
riscontra una grande aspettativa che esso possa essere un altro veicolo di
interattività. Non significa che andrà a sostituire Internet o tutti gli altri
metodi di comunicazione fra aziende, fra popolazione, fra pubblica
amministrazione, ma che sarà un canale in più, forse ancora più friendly
dei canali attuali, perché la televisione penetra nella mentalità di ognuno di
noi come qualcosa di amichevole, non di estraneo al nostro modo di vivere, come
talora il personal computer.
Quando dichiariamo che vorremmo anticipare è perché confidiamo che,
anticipando, potremmo avere una risposta abbastanza completa da parte degli
utenti, ovvero della popolazione.
Inoltre, rimandare eccessivamente rende le cose non più attraenti. Il
rinnovamento della tecnologia è talmente tumultuoso che un piano perfetto dal
punto di vista delle attività i , una volta realizzato, potrebbe essere già
superato da uno più adeguato.
La Confindustria è formata da 280 associazioni. Non vi so dire se il Governo
abbia chiesto a una di queste 280 associazioni il parere, ma non lo ha chiesto a
noi; né credo che quando il Governo presenta un disegno di legge venga chiesto
sempre un parere alle associazioni.
Ritengo quindi che il digitale terrestre possa essere non una rivoluzione
tecnologica, ma un ottimo veicolo per incrementare i canali e la competitività
fra le varie imprese - anche se ho letto dichiarazioni spesso di segno opposto,
nel senso di una normativa punitiva - e un notevole contributo all'interattività,
alla capacità del cittadino di affidarsi ad un altro mezzo per colloquiare
in maniera estremamente amichevole e facile.
Spero di aver risposto esaurientemente alle vostre domande.
PRESIDENTE. La ringrazio, ingegner Tripi, per il suo intervento.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 20,25.