La decisione del presidente
Ciampi per una nuova deliberazione va salutata come un passaggio di
rilievo nella storia istituzionale del nostro paese, non tanto perché -
come ho in più occasioni argomentato su queste colonne- vada
considerato come un fatto straordinario ed eversivo, ma perché
riconduce alla normalità e sanità repubblicana una serie di rapporti
tra i detentori delle funzioni sovrane nello stato. La chiave del
discorso sta tutta in quel passaggio, stretto, della disciplina che si
vuol dare alla radiotelevisione raffrontata al rischio di posizioni
dominanti nell’informazione e in quella “qualità della
democrazia” immediatamente collegata al pluralismo che il presidente
Ciampi aveva, spontaneamente e con larghezza di argomenti, indicato come
parametri costituzionali fondamentali nel suo messaggio alle camere del
luglio 2002. È dunque con soddisfazione e rinnovata stima e fiducia
che, adesso, si può dare atto al Presidente Ciampi di essere stato
coerente con se stesso e con i paradigmi di costituzionalità più volte
enunciati nell’adempiere con alto senso dello stato, i compiti che gli
sono stati affidati.
Ma ora, che succede? Mi pare che vada scartata,
anzitutto, la sola ipotesi di “ far finta di niente”, forzando
le camere a riapprovare il testo della legge Gasparri così com’è,
poggiando sulla fredda lettera del secondo comma dell’art. 74 Cost.
laddove è previsto l’obbligo del Presidente
della Repubblica di promulgare una legge quando questa venga a lui
ripresentata in seguito al suo rinvio.
Dopo la lettura delle cinque asciutte, profonde e
argomentate pagine che stanno alla base del rinvio e lo motivano
convincentemente, prendere questa strada equivarrebbe per il governo e
la maggioranza ad una vittoria di Pirro, della durata di pochi mesi, che
aprirebbe la via di una sicura dichiarazione di illegittimità
costituzionale, che la Consulta ben potrebbe adottare , partendo proprio
dai rilievi formulati dal Capo dello stato rimasti inevasi e senza
risposte. Spero, inoltre che le persone di buon senso nella maggioranza
si opporrebbero fermamente a questo suicidio in diretta Tv.
La via maestra sarebbe,invece, quella di far
tesoro dei rilievi accuratamente segnalati dal Quirinale - a cominciare
dal micidiale sistema integrato della comunicazione che prende a
riferimento l’intero panorama pubblicitario - per rimettere mano in
profondità alla legge sulla televisione, intervenendo là dove appare
utile - l’apertura alle nuove tecnologie e al sistema digitale, ad
esempio; la tutela dei minori, ecc - ma depurando le norme dal
quell’utilità particulare per il duopolio collusivo Mediaset-Rai che
è la vera ragione e la pesante zavorra della normativa in esame.
Per far ciò non aiuta essere inseguiti dalla
fretta e dalla furia e sarebbe opportuno affrontare su basi di serietà
e verità l’argomento tabù del colossale conflitto di interessi
di cui è parte oggi il capo del governo. Proprio qui tocca alla
fine, giungere perché nei palazzi romani cominciano a circolare
ipotesi e bozze di un decreto legge che sarebbe in preparazione e
sarebbe volto a salvare Rete Quattro e la pubblicità su RaiTre.
La strada del decreto legge è però scivolosa ed
infida per almeno quattro motivi.
Per decenza, ma anche per la stessa validità
dell’atto, questo dovrebbe essere adottato da un Consiglio dei
ministri non presieduto da Berlusconi, anzi con il Presidente del
consiglio fuori dalla porta, essendo conclamato - altrimenti - che, egli
statuirebbe in re propria et pro domo sua. Inoltre non è facile
giustificare, quantomeno sul piano politico, la straordinarietà,
necessità ed urgenza di provvedere.Questi caratteri sono richiesti per
l’adozione del decreto legge e pur essendo alla fin fine
insindacabili sul piano giuridico formale e lasciati ad un apprezzamento
di maggioranza, segnalerebbero tuttavia il gemellaggio con il decreto
Craxi che, sulla fine del 1984, venne a primo salvataggio delle
reti di Berlusconi. L’accostamento ha un che di inquietante.
In terzo luogo, le discussioni parlamentari sul
decreto - prima quelle sulla sua costituzionalità, urgenza ed
eccezionalità, poi quelle innescate dalla legge di conversione da
ottenere obbligatoriamente entro 60 giorni - potrebbero aprire
pericolose crepe nella maggioranza proprio in un momento in cui si
vorrebbe esaltare la ritrovata coesione.
Infine, l’escamotage di far firmare
il decreto dal vice presidente Fini non varrebbe a sfuggire, una volta
di più, alla sensazione di una maggioranza che si ricompatta, allineata
ed ordinata, solo a copertura del suo capo. E questo, di per sé, non è
un bel vedere.
|