La legge Gasparri, sul
riassetto del sistema radiotelevisivo, approvata in questi giorni in
quarta e decisiva lettura dal senato e ora alla firma del
presidente della repubblica, pone seri problemi di compatibilità con il
giudicato prodotto da una recente pronuncia di accoglimento della Corte
costituzionale. Innanzitutto, due parole sul giudicato costituzionale,
cioè su quella particolare qualità delle pronunce della Corte
costituzionale in forza della quale gli effetti che esse producono
divengono immediatamente incontestabili.
Ciò deriva dall’articolo 136 della Costituzione, ove si stabilisce
che «quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una
norma di legge o di atto avente forza di legge la norma cessa di avere
efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», e
dal successivo articolo 137, ultimo comma, nel quale può leggersi che
«contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna
impugnazione».
Il combinato disposto delle predette disposizioni
costituisce il fondamento del principio della “intangibilità della
pronuncia”, nel senso, che gli effetti di essa non sono modificabili
ad opera di nessuno: né dalla Corte stessa, né da altro giudice, né
dal legislatore.
Tale principio, del resto, costituisce una
conseguenza obbligata della stessa logica sottesa agli ordinamenti a
costituzione “rigida”, cioè non modificabile attraverso una
legge ordinaria, caratteristica di cui le attività della Corte sono
diretta manifestazione.
Stessa ragione per la quale, d’altra parte, è
invece consentito al legislatore costituzionale, attraverso il
procedimento aggravato di cui all’articolo 138 della Costituzione,
procedere al superamento di un precedente dispositivo della Corte
costituzionale, come del resto è di recente avvenuto in occasione della
vicenda che ha condotto alla modifica, a seguito della sentenza n.
361 del 1998, dell’articolo 111 della Costituzione, in tema di
“giusto processo”. E tale ordine di idee risulta confermato, ad
abundantiam, anche dalla lettura dei lavori preparatori dell’Assemblea
costituente, dalla quale si evince che la previsione contenuta
nell’articolo 136 della Costituzione, in forza della quale le pronunce
costituzionali sono comunicate alle camere affinché, «ove lo ritengano
necessario, provvedano nelle forme costituzionali», fu originariamente
proposta proprio per consentire al parlamento di superare il decisum del
giudice delle leggi soltanto attraverso lo strumento della revisione
costituzionale.
In definitiva, come ebbe modo di precisare
la Corte fin dal 1983, il giudicato costituzionale comporta che
sia «precluso non solo il disporre che la norma dichiarata
incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e
raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già
ritenuti lesivi della Costituzione». Preclusione che, quindi, opera
anche per l’avvenire, giacché è evidente che una pronuncia
costituzionale è rivolta più al futuro che al passato, dal momento che
il giudice costituzionale è portato soprattutto a valorizzare «il
prospective overruling che deve poi valere per il futuro, mentre è
disposto a vedere attenuata l’incidenza delle sue pronunce per quel
che riguarda le condotte del passato».
Veniamo dunque alla questione relativa
all’assetto della radiotelevisione. Con la sentenza n. 466 del 2002 la
Consulta, ponendo fine ad una vicenda che si trascinava da anni,
ha dichiarato incostituzionale l’articolo 3, comma 7, della legge n.
249 del 1997, legge che aveva di fatto consentito l’ulteriore
differimento dell’assetto radiotelevisivo già dichiarato illegittimo
con la precedente pronuncia n. 420 del 1994. In particolare, nella
decisione di pochi mesi fa il giudice costituzionale, dopo aver
osservato che «l’esistente sistema televisivo italiano privato trae
origine da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze, al
di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo» e che anzi, «rispetto
a quella esaminata dalla sentenza n. 420 del 1994, la situazione di
ristrettezza delle frequenze disponibili si è pertanto accentuata, con
effetti ulteriormente negativi sul rispetto dei principi del pluralismo
e della concorrenza », stabilisce che, «in questo quadro, la
protrazione della situazione esige, ai fini della compatibilità
con i principi costituzionali, che sia previsto un termine finale
assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile».
Tale termine, non avendo il giudice delle leggi né
gli strumenti né la possibilità di compiere un’autonoma valutazione
tecnica, viene fatto coincidere, come si stabilisce nello stesso
dispositivo della sentenza, con quello individuato in via
amministrativa, con delibera adottata il 13 agosto 2001, quando già era
pendente il giudizio di fronte alla Consulta, dall’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni. Di conseguenza la questione di
costituzionalità viene accolta con l’annullamento della disposizione
censurata «nella parte in cui non prevede la fissazione di un
termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non
oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi irradiati
dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso
articolo 3 devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via
cavo».
Si tratta, come sovente avviene al palazzo della
Consulta in circostanze di questo tipo, di una decisione estremamente
prudente: alla singolare severità della motivazione, nella quale, come
si è accennato, non si risparmiano toni piuttosto duri e comunque
inequivocabili nel giudicare un sistema da anni del tutto incompatibile
con il principio pluralistico, corrisponde un dispositivo morbido, che,
bilanciando i diversi interessi di rilievo costituzionale in campo,
fi- nisce per concedere ancora tempo al legislatore, come già era
accaduto in passato, con la differenza che, questa volta, viene
individuato un “termine finale assolutamente certo”.
Ed è proprio sul punto della “certezza” che
la legge Gasparri si pone in evidente contrasto con la sentenza della
Corte costituzionale. Le previsioni “incriminate” sono, in
particolare, gli articoli 15 e 25 del testo approvato. La prima
disposizione prevede che uno stesso fornitore non possa essere titolare
di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20 per cento del
totale dei programmi televisivi; stesso parametro già previsto, e mai
applicato, dalla legge del 1997, ma ora misurandosi tale percentuale su
un paniere comprensivo, tra l'altro, delle frequenze in tecnica
digitale. E’ evidente che la formazione di un mercato rilevante di così
ampie proporzioni (e così eterogeneo) rispetta solo formalmente le
regole sulla concorrenza adottate come parametro per il pluralismo dalla
giurisprudenza costituzionale e, in sostanza, consente di mantenere ed
anzi di estendere ancora la sfera di intervento dell'attuale monopolista
privato.
D’altra parte, l’articolo 25 stabilisce
altresì che l’offerta di programmi su reti televisive digitali
terrestri abbia inizio «entro il 31 dicembre 2003», con l’obiettivo,
attraverso un piano volto al progressivo incremento della tecnica
digitale, di raggiungere solo dopo un anno, il 1 gennaio 2005, il 70 per
cento della popolazione.
Ora, tale obiettivo, al di là di ogni
valutazione di ordine tecnico, si presenta, per lo stesso legislatore,
incerto. Nel medesimo articolo 25 si prevede infatti che l’Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni, «entro i dodici mesi successivi al
31 dicembre 2003, svolga un esame della complessiva offerta dei
programmi televisivi digitali terrestri allo scopo di accertare la quota
di popolazione raggiunta dalle nuove reti digitali terrestri». Non
solo, «entro trenta giorni dal completamento di tale accertamento,
l’Autorità invia una relazione al governo e alle competenti
commissioni parlamentari nella quale verifica se sia intervenuto
un effettivo ampliamento delle offerte disponibili e del pluralismo nel
settore televisivo…».
Non è difficile constatare che l’esito del
predetto accertamento potrà essere positivo oppure negativo, e che, in
questo secondo caso, l’Autorità potrà, al massimo, «formulare
proposte di interventi». Ne consegue che la disciplina della nuova
legge non offre alcuna garanzia che consenta di escludere che ci si
trovi di fronte all’ennesima proroga; in un sistema che,
sostanzialmente da sempre, vive di proroghe.
La differenza rispetto al passato è che, in
questa occasione, vi è una precedente sentenza della Consulta che ha
individuato un termine finale inderogabile.
Un termine che espressamente non consente
proroghe.
*Professore associato di diritto costituzionale nell’Università
di Pisa e autore della monografia “Il giudicato costituzionale
nel giudizio sulle leggi” Torino, Giappichelli editore, 2002
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