da http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/
Il presente commento è destinato alla pubblicazione sulla rivista "Giurisprudenza Costituzionale"
di Alessandro Pace
1. Il messaggio del 23 luglio 2002 del Presidente Ciampi su «pluralismo e imparzialità dell'informazione» offre vari spunti di riflessione, attinenti sia alle modalità usate sia ai contenuti.
Quanto alle modalità (il messaggio «formale»), tutti gli osservatori hanno rilevato come il ricorso allo strumento disciplinato dall'art. 87, comma 2, Cost. testimoni la solennità - e quindi il particolare rilievo politico-istituzionale - che il Presidente ha inteso conferire a questo suo ennesimo intervento in favore del pluralismo e dell'imparzialità nei mass media, dopo che analoghe sollecitazioni, incidentalmente contenute in svariate allocuzioni (cd. messaggi «liberi»), erano, in sede politica, praticamente cadute nel vuoto 1. Ciò era accaduto perché tali richiami, essendo state pronunciati dal Presidente Ciampi col consueto garbo e con la consueta attenzione alla correttezza dei rapporti interistituzionali, erano state capziosamente interpretati, da parte di taluni esponenti della maggioranza di governo, in senso diverso da quello che erano le evidenti preoccupazioni di Ciampi, e cioè le gravissime conseguenze sul sistema politico-istituzionale derivanti dall'abnorme accumulo di potere mediatico nelle mani dell'attuale Presidente del Consiglio.
Poiché il garbo e l'attenzione ai corretti rapporti costituiscono una caratteristica della sua personalità umana, l'utilizzo da parte del presidente Ciampi del messaggio «formale» in luogo di quello «libero» non ha tuttavia implicato, nel messaggio che si commenta, un mutamento di tono e una più decisa individuazione delle cause dell'assenza di pluralismo e di imparzialità nel nostro sistema dell'informazione. Conseguentemente il contenuto del messaggio non ha prodotto sulla maggioranza parlamentare quel soprassalto di consapevolezza politica e istituzionale che i temi del messaggio avrebbero meritato. Né le opposizioni sono state da meno: lo testimonia lo scarso interesse con il quale Camera e Senato hanno svolto il relativo dibattito 2.
Di qui un primo rilievo. Oggi come oggi - e questo vale soprattutto per l'Italia - la comunicazione politico-istituzionale, se vuol raggiungere lo scopo che l'autore si prefigge, deve necessariamente essere più esplicita di quanto lo fosse un tempo, e ciò sia per la ridotta sensibilità istituzionale degli attori (e quindi per la minore percezione delle proprie responsabilità politiche... e giudiziarie), sia per il contesto sociale e mediatico nel quale tali comunicazioni si inseriscono: un contesto nel quale il dibattito pubblico si svolge soprattutto attraverso il mezzo radiotelevisivo. Come è stato giustamente osservato da un editorialista particolarmente esperto in questi problemi, «nella rumorosa società», dei mass media, il culto delle sfumature spesso equivale al silenzio 3.
Di questi due elementi (la mutata sensibilità e la peculiarità del contesto) dovrebbero tener conto tutti i messaggi «formali». Ma di ciò avrebbe soprattutto dovuto tener conto un messaggio - come quello in commento - che dichiaratamente mirava a lamentare l'attuale situazione di carenza di pluralismo e di imparzialità nei mezzi d'informazione.
E' intuitivo che una maggiore franchezza nelle denunce del Capo dello Stato avrebbe potuto fare insorgere una qualche tensione nei rapporti con il Presidente del Consiglio, con il Governo e con la maggioranza parlamentare, e sono perciò intuitive le perplessità presidenziali al riguardo. Tuttavia è altrettanto vero che questo era un rischio insito nella stessa scelta del messaggio «formale», pena la sostanziale inutilità dello stesso a fronte della massiccia maggioranza di centro-destra attualmente esistente sia al Senato che alla Camera.
Tutto ciò è comprovato dalla disponibilità, prontamente dichiarata ai mass media, del Presidente del Consiglio Berlusconi - e cioè del maggiore responsabile, quale imprenditore e quale governante, dell'assenza di pluralismo nel nostro sistema dell'informazione televisiva - a controfirmare il messaggio in commento. Questa dichiarata disponibilità costituisce infatti la migliore testimonianza che, agli occhi di un «uomo di comunicazione» qual è Silvio Berlusconi, il messaggio del 23 luglio aveva un contenuto sufficientemente anodino perché esso potesse essere abilmente ridimensionato sia sui mezzi d'informazione di sua proprietà, sia su quelli da lui politicamente condizionati quale Presidente del Consiglio, sia infine nel dibattito politico-parlamentare 4.
2. Un siffatto carattere del messaggio può essere individuato, in primo luogo, nel livello del discorso (sempre mantenuto sulle generali, tranne che per l’accenno alla centralità del servizio pubblico); in secondo luogo, nella «considerazione» della quale il Presidente Ciampi ha fatto oggetto sia la l. 6 agosto 1990, n. 223, sia la l. 31 luglio 1997, n. 249 (considerazione dalla quale esula, almeno a prima vista, qualsiasi intento critico).
Due leggi, quelle testé citate, che, pur non essendo obiettivamente criticabili in toto - e che tanto meno avrebbero (ovviamente!) potuto essere criticate dal Presidente della Repubblica in sede di messaggio -, sono quelle che hanno consentito, proprio nelle disposizioni che avrebbero dovuto essere qualificanti per la garanzia del pluralismo, di perpetuare la situazione di duopolio stigmatizzata (ma, purtroppo, non esplicitamente condannata) dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza n. 826 del 1988.
Non starò qui a ricordare, per l'ennesima volta, fatti che tutti (o quasi) conoscono. E' però indiscutibile - e almeno questo può essere ancora una volta sottolineato - che, mentre per tale sentenza il pluralismo «non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato», la l. n. 223 del 1990 non ha fatto altro - per ciò che riguarda l'emittenza televisiva nazionale - che «fotografare l'esistente», pur proclamando, senza però alcun concreto seguito normativo, quei principi pluralistici ricordati nel messaggio dal Presidente («il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto della libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione»).
Tale legge ha infatti previsto, ma solo sulla carta, l'esistenza di ben dodici imprese concessionarie a livello nazionale, però «senza radiofrequenze» (rectius, con le radiofrequenze di fatto possedute, il che vuol dire con la piena copertura nazionale soltanto per Rai e per RTI-Fininvest); ed ha consentito che potessero essere considerate «nazionali» anche emittenti con una copertura del 60 per cento del territorio (ma in effetti addirittura inferiore) allo scopo di raggiungere il numero fatidico di dodici emittenti nazionali che servisse a garantire la permanenza del 25 per cento (e cioè delle tre reti) al gruppo RTI-Fininvest.
Quanto alla l. n. 249 del 1997, essa, allo stesso scopo di mantenere in piedi lo status quo ante, da un lato ha consentito all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCom) di disegnare, sempre e solo sulla carta, non diversamente dalla l. n. 223 del 1990, un numero (undici) abnorme di concessionari televisivi a livello nazionale -una quantità sconosciuta a livello europeo!- senza la correlativa assegnazione di radiofrequenze; dall'altro, nell'art. 3, commi 6, 7 e 11, ha consentito alla terza rete RTI-Mediaset (contro quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sent. n. 420 del 1994) e alla seconda rete Telepiù (contro quanto stabilito nello stesso art. 3 comma 11) di continuare ad operare fino a quando l'AGCom, «in relazione all'effettivo e congruo sviluppo dell'utenza dei programmi radiotelevisivi via satellite e via cavo», non indichi il termine entro il quale i programmi irradiati da tali emittenti devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo. Termine che, solo dopo la rimessione alla Corte costituzionale della relativa q.l.c. 5, è stato di recente fissato dall'AGCom per la fine del 2003 (e non senza la possibilità di ulteriori slittamenti) 6.
Eppure, il principio secondo il quale, nel settore dell'informazione, deve considerarsi vietata la mera posizione dominante (e non l'abuso di tale posizione) è addirittura riaffermato nell'intestazione dell'art. 2 della l. n. 249 del 1997 (così come, con eguale ipocrisia, esso era proclamato nell'intestazione dell'art. 15 l. n. 223 del 1990). Il che ha indotto il Presidente Ciampi ad affermare che «dato essenziale della normativa in vigore» sarebbe «il divieto di posizioni dominanti, considerate di per sé ostacoli oggettivi all'effettivo esplicarsi del pluralismo». (Ciò è però vero a livello costituzionale, nel combinato disposto degli artt. 21 e 41 Cost., ma non certo alla luce della l. n. 249 del 1997 e dei provvedimenti ministeriali e dell'AGCom che l'hanno implementata).
3. Contro l'apparente genericità del messaggio, al lettore (molto) attento forse però non sfuggirà una differenza che emerge dal messaggio a seconda che il Presidente faccia riferimento alla carta stampata o alla televisione.
Mentre con riferimento alla prima, il Presidente, dopo aver richiamato la l. n. 416 del 1981, afferma che secondo i dati forniti dal Presidente dell'AGCom nella relazione del 12 luglio 2002 «i limiti posti dalla legge alle concentrazioni in materia di stampa risultano rispettati», nessuna valutazione parimenti positiva è riportata con riferimento al sistema radiotelevisivo, al qual proposito il Presidente si limita a ricordare, oltre alle citate (discutibili) leggi del 1990 e del 1997, le sentenze della Corte costituzionale nn. 420 del 1994 e 155 del 2002, le recenti direttive del Parlamento europeo e del Consiglio dell'UE e la Carta europea dei diritti fondamentali. Ebbene, tali atti sono richiamati dal Presidente proprio perché vincolano il legislatore ad «assicurare il pluralismo delle voci, espressione della libera manifestazione del pensiero», il che, argomentando a contrario con quanto invece rilevato con riferimento alla stampa, sembrerebbe evidenziare un atteggiamento critico del Presidente con riferimento all'informazione televisiva.
Del pari, solo se si legge il messaggio con un approccio critico nei confronti della attuale sistema televisivo, si possono comprendere due passaggi che altrimenti solleverebbero fondate perplessità.
Il primo concerne l'accenno alla recente sentenza della Corte costituzionale n. 155 del 2002. Il Presidente sembrerebbe ritenere che in essa la Corte abbia predicato il doveroso riconoscimento, anche nelle imprese televisive private, del cd. «pluralismo interno». Per la verità, come la Corte ha sottolineato efficacemente tanto nella sent. n. 826 del 1988 quanto nella sent. n. 420 del 1994, il «pluralismo interno» caratterizza (e deve caratterizzare) esclusivamente l'emittente di servizio pubblico, che esercita, diversamente dalle imprese private, una «funzione» informativa, educativa, culturale, ricreativa ecc. In coerenza con tale indirizzo la Corte costituzionale, nella sent. n. 155 del 2002, ha inteso affermare una cosa alquanto diversa (ed apparentemente ovvia), e cioè che le imprese radiotelevisive private operano in regime di concessione (v. già in tale senso la sent. n. 112 del 1993). Il che - volendo approfondire il rilievo - significa che l'imprenditore televisivo, per il mero fatto di essere ammesso ad operare in un mercato ad accesso limitato, gode di una situazione di «privilegio legale» rispetto ai comuni imprenditori (e alle imprese giornalistiche), in conseguenza della quale potrebbero essergli imposti non solo doveri, ma anche obblighi di facere e di pati (ad es. la par condicio televisiva nelle comunicazioni politiche in periodo elettorale - così ancora la sent. n. 155 del 2002 -, nonché addirittura l'irradiazione di spot pubblicitari gratuiti, in materia politica, in periodo elettorale) 7.
Se invece si legge il messaggio presidenziale in chiave critica della situazione esistente, allora l'estensione del «pluralismo interno» alle imprese radiotelevisive private assume una portata discutibile dal punto di vista giuridico (perché sottende un'adesione alla cd. teoria dei valori nei confronti della quale si possono nutrire fondate perplessità), ma seria e condivisibile da quello politico. Tale estensione assume infatti, politicamente, il sapore di una sorta di risarcimento per il pregiudizio che la posizione dominante di RTI-Mediaset nel settore televisivo privato ha finora arrecato al «fondamentale diritto del cittadino all'informazione» 8.
Il secondo passaggio, che potrebbe giuridicamente sollevare perplessità qualora lo si leggesse prescindendo da una valutazione critica dell'esistente, è là dove il Presidente, con riferimento allo «statuto» delle opposizioni e delle minoranze, suggerisce l'estensione all'intero circuito mediatico, pubblico e privato, della vigilanza del Parlamento, in coordinamento con l'AGCom, «allo scopo di rendere uniforme e omogenea il principio della "par condicio"».
E' infatti noto che il controllo parlamentare - tuttora previsto esclusivamente sulla società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo ai sensi degli artt. 4 ss. l. 14 aprile 1975, n. 103 - giuridicamente si giustifica per la specifica natura pubblica della concessionaria (è doveroso il richiamo, sul punto, della sent. n. 225 del 1974, che con i suoi «comandamenti» indicò alle Camere la via da seguire, e che fu concretamente seguita dalla l. n. 103 del 1975). L'estensione del controllo parlamentare sulle emittenti private, predicata dal Presidente della Repubblica, in tanto allora si spiega, in quanto il Presidente si rende ben conto che il mero pluralismo esterno, nella situazione oligopolistica italiana, favorisce non una maggiore ricchezza di voci contrapposte, ma una situazione di abnorme e preoccupante potere mediatico privato.
In questa stessa luce non può infine sfuggire, al lettore smaliziato, anche l'accenno che il Presidente fa alla recentissima Direttiva «che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica» (Dir. 2002/21/CE), là dove questa «fa obbligo agli Stati membri di "garantire l'indipendenza delle autorità nazionali di regolamentazione in modo da assicurare l'imparzialità delle loro decisioni"». In effetti questo passaggio dovrebbe costituire un motivo di seria riflessione critica da parte del legislatore, essendo assolutamente contraddittorio - già nel 1997, ma a fortiori oggi - che il presidente di un'autorità amministrativa indipendente quale l'AGCom sia nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri; e che la garanzia dell'indipendenza dei componenti di tale Autorità consista nella loro elezione, con criteri spartitori (art. 1 comma 3 l. n. 249 del 1997), da parte della maggioranza e delle opposizioni. L'illegittimità costituzionale ai sensi dell'art. 97 Cost. diventa adesso, grazie all'art. 3 Dir. 2002/21/CE, anche illegittimità comunitaria.
4. Il Presidente della Repubblica giustamente ricorda che il nuovo Titolo V della nostra Costituzione assegna alle Regioni la competenza legislativa concorrente in materia di «ordinamento delle comunicazioni» (art. 117 comma 3 Cost.).
Di qui il richiamo del Presidente al ruolo unificante - per la «salvaguardia dell'unità della Nazione e della identità culturale italiana» - che lo Stato può e deve svolgere nella definizione dei principi fondamentali. Un richiamo certamente importante, che però sembra supporre che, in materia, le regioni abbiano indiscutibilmente competenza concorrente.
Ma è proprio vero che la disciplina delle infrastrutture di telecomunicazione ricade nella competenza legislativa regionale concorrente? E la disciplina dei contenuti delle trasmissioni radiotelevisive rientra nella competenza legislativa regionale concorrente anche per ciò che riguarda l'emittente di servizio pubblico nazionale e le emittenti private che operano su scala nazionale?
Per ciò che riguarda il primo quesito, è bensì vero che gli estensori del nuovo Titolo V sembrano non aver avvertito che la disciplina delle infrastrutture di telecomunicazione deve tener conto di esigenze diverse da quelle a cui può ispirarsi la disciplina della radiodiffusione (v. in tal senso l'art. 73 comma 1 n. 7 GG che assegna al Bund la competenza legislativa esclusiva in materia di poste e telecomunicazioni). Tuttavia è altrettanto vero che la citata Direttiva quadro fortunatamente... rimedia alle lacune del Titolo V avocando all'autorità nazionale di regolamentazione - che non può non essere unica sul territorio di ciascuno Stato membro (art. 3 comma 1) - la competenza a porre in essere la regolamentazione delle reti di comunicazione elettronica (art. 8), con la conseguenza di coinvolgere, anche nella disciplina di dettaglio, il legislatore nazionale. Condurrebbe infatti ad esiti assurdi la opposta tesi, secondo la quale il fondamento «nazionale» di una siffatta competenza amministrativa statale andrebbe rinvenuta nella legislazione «regionale» concorrente (costituzionalmente tenuta a prestare ossequio agli obblighi comunitari, ai sensi dell'art. 117 comma 1 Cost.).
Per quanto riguarda il secondo quesito - e cioè se la disciplina dei contenuti delle trasmissioni radiotelevisive rientri nella competenza legislativa regionale concorrente anche per ciò che attiene alla disciplina di dettaglio della concessionaria del servizio pubblico nazionale e delle emittenti private che operano su scala nazionale -, in primo luogo deve osservarsi che la potestà legislativa statale relativa ai principi fondamentali si intreccia, nella specie, con la potestà esclusiva di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» [art. 117 comma 2 lett. m)] e con la competenza esclusiva statale in materia processuale, penale, di ordine e sicurezza pubblica [art. 117 comma 2 lett. h) e l)]. In secondo luogo, deve essere sottolineato che la potestà legislativa regionale concorrente - con riferimento alle emittenti nazionali o ultraregionali, ancorché aventi la sede legale nel proprio territorio regionale - non può essere esercitata dalle singole regioni se non a seguito di un accordo tra le varie regioni sui contenuti normativi della disciplina regionale di dettaglio, sulla falsariga di quanto avviene in Germania con gli Staatsverträge stipulati tra i Länder.
In altre parole si tratterebbe di un «accordo nazionale» che dovrebbe essere pubblicato sulle singole Gazzette ufficiali regionali e al quale le singole Regioni sarebbero conseguentemente tenute ad adeguarsi nella loro specifica legislazione radiotelevisiva (si noti bene: l'Ard e la Zdf - prima e seconda rete televisiva pubblica tedesche - si basano su analoghi Staatsverträge; del pari esiste in Germania, per l'emittenza privata nazionale, il Runfunkstaatsvertrag del 31 agosto 1991).
5. Un ultimo punto meritevole di commento è l'accenno all'editoria di giornali e di periodici. Il Presidente ne parla in due punti: all'inizio, per ricordare che, secondo la relazione 2002 del Presidente dell'AGCom, «i limiti posti dalla legge alle concentrazioni in materia di stampa sono stati rispettati» (e a ciò ho fatto già cenno); e nel prosieguo, per invitare le Camere «a regolare l'intera materia delle comunicazioni, delle radiotelediffusioni, dell'editoria di giornali e periodici e dei rapporti tra questi mezzi».
Non mi sembra però che, con questi due accenni, il Presidente abbia inteso trattare alla stessa stregua televisione e stampa sotto il profilo dell'imparzialità dell'informazione. Le caratteristiche anche sociologiche dei due mezzi sono indiscutibilmente diverse (v. la famosa sent. n. 148 del 1981 nonché, da ultimo, la più volte citata sent. n. 155 del 2002) e, del resto, il regime privatistico della stampa, ancorché costituzionalmente non imposto (si pensi all'editoria scientifica), corrisponde ad una linea di tendenza risalente alla l. 5 agosto 1981, n. 416.
La garanzia della libertà di stampa si fonda perciò, per definizione, esclusivamente sul «pluralismo esterno», in conseguenza del quale la libertà del giornale prevale sulla libertà nel giornale. L'indirizzo politico-editoriale (alla determinazione del quale non possono essere mantenuti estranei i rappresentanti dei redattori) finisce quindi per condizionare anche la libertà dei singoli operatori.
Il pericolo, paventato dal Presidente della Repubblica, non sta allora, a mio avviso, nella carenza di pluralismo nel settore - altrimenti non si spiegherebbe perché mai il Presidente avrebbe autorevolmente fatto propria l'affermazione del presidente dell'AGCom secondo la quale i limiti alle concentrazioni nel settore giornalistico sarebbero stati rispettati -, ma sta, anche qui, nella preoccupazione di un possibile maggiore condizionamento della proprietà delle imprese giornalistiche da parte della proprietà di imprese televisive. In altre parole, nel contesto del messaggio, mi sembrerebbe che il Presidente Ciampi suggerisca di consentire l'incrocio proprietari TV-carta stampata (che, del resto, l'art. 15 comma 1 l. n. 223/90 già consente, pur con dati limiti) allo scopo di garantire un maggior pluralismo, non già per incrementare la situazione di dominanza di RTI-Mediaset nel settore complessivo dell'informazione.
Probabilmente le recenti vicende concernenti la proprietà e la direzione del «Corriere della sera» non sono estranee alle preoccupazioni del Presidente 9.
Postilla. Avevo già licenziato questo commento per la stampa, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge predisposto dal Ministro delle Comunicazioni Gasparri contenente «Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. e delega al Governo per l'emanazione del Codice della radiotelevisione».
A parte ogni altra questione, il d.d.l. è così manifestamente favorevole al mantenimento - anzi al peggioramento - dello status quo 10, che il Presidente del Consiglio Berlusconi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta hanno ritenuto di dover abbandonare l'aula del Consiglio dei Ministri «per evitare il conflitto di interessi» (sic!). Il sottosegretario Letta ha anzi preteso che ciò venisse messo a verbale «per dare il massimo dell'ufficialità al gesto» 11.
Mi chiedo: il contenuto del d.d.l. sarebbe stato lo stesso se il messaggio presidenziale fosse stato più esplicito nell'individuazione delle cause dell'assenza di pluralismo nel sistema radiotelevisivo italiano?
Note
1 V. gli interventi del Presidente della Repubblica in occasione della visita alla sede del quotidiano «Il secolo XIX» di Genova (8 febbraio 2002), dell'incontro con la direzione e con i redattori del quotidiano «Il Tirreno» di Livorno (15 febbraio 2002), degli incontri istituzionali con le autorità, a Padova (19 marzo 2002) e a Campobasso (25 marzo 2002), dell'incontro con la direzione de «Il mattino» di Napoli in occasione dell'inaugurazione della nuova linea metropolitana (27 marzo 2002), della cerimonia di consegna, al Quirinale, dei diplomi di prima classe con medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte (19 aprile 2002), dell'incontro con la direzione e con la redazione del quotidiano «Il messaggero veneto» di Udine (3 maggio 2002). A tutti questi interventi, ancorché spesso assai brevi o puramente incidentali, la stampa quotidiana del giorno successivo ha dato grande spazio.
2 Il «Corriere della Sera» del 26 luglio 2002, 3, così titolava i vari servizi: «Dibattito sul messaggio di Ciampi, Camere vuote». Il quotidiano riportava che i deputati presenti erano stati 44, i senatori 66. Alla Camera nessun capogruppo sarebbe stato presente, né di maggioranza, né di opposizione.
3 C. Rinaldi, A rimorchio di Nanni, ne «L'espresso», n. 33, 13 agosto 2002, 19. Per l'esattezza la frase di Rinaldi è la seguente: «Spesso, nella rumorosa società dei mass media, il culto delle sfumature e la schizzinosità equivalgono al silenzio».
4 Una lettura del messaggio, tutta «in positivo», è invece quella di E. Scalfari, I cinque paletti piantati da Ciampi, ne «La Repubblica», 29 luglio 2002, 13.
5 La relativa questione di legittimità è stata sollevata dal Tar Lazio, sez. I, ord. 31 gennaio 2001 in G.U., n. 21 suppl. spec., 30 maggio 2001 (reg. ord. n. 374 del 2001).
6 AGCom, delibera n. 346/01/Cons del 13 agosto 2001, art. 20.
7 Su tali problemi v. già i miei scritti Autorità e libertà nel settore delle telecomunicazioni e della televisione, in Dir. radiodiff. telecom., nuova serie, 1999, n. 3, 18 e 32; Eguaglianza e libertà, in Pol. dir., 2001, 166.
8 Sull'interpretazione per valori mi si consenta di rinviare al saggio Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost., 2001, 35 ss., spec. 53 ss.; sui limiti di ammissibilità concettuale del cd. diritto all'informazione v. invece la mia voce Comunicazioni di massa (diritto), in Enc. sc. soc., vol. II, Roma, 1992, 182 ss.
9 V. ad es. P. Gomez, La battaglia di Solferino. Editoria e politica /L'assalto al Corriere della sera, ne «L'espresso», n. 32, 7 agosto 2002, 60 s.
10 Il divieto di posizione dominante è fissato bensì al 20 per cento delle complessive risorse, ma gli «ingredienti» che compongono il sistema sono tali e tanti che in sostanza il divieto è divenuto di più difficile applicazione; Retequattro e Telepiù nero continueranno a utilizzare le frequenze terrestri; sono caduti tutti i limiti per l'acquisizione di quotidiani da parte di Mediaset ecc.
11 V. il Corriere della sera, 7 settembre 2002, 3.