Il pluralismo il digitale e la Consulta
di
SABINO CASSESE
La nuova legge Gasparri sull'assetto del
sistema radiotelevisivo - quella approvata dalla Camera dei deputati dopo
la richiesta di riesame del Presidente della Repubblica ed ora in corso di
approvazione da parte del Senato - tiene conto dei rilievi presidenziali
ed è in grado di chiudere il ventennale contenzioso costituzionale sul
pluralismo televisivo? La prima osservazione del Presidente della
Repubblica riguardava la lunghezza del termine concesso all'Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni per verificare la diffusione del digitale
terrestre e l'assenza di indicazioni sul tipo e gli effetti dei
provvedimenti dell'Autorità in caso di esito negativo della sua indagine.
Il termine e i poteri erano importanti per far rispettare la data del 31
dicembre 2003, fissata dalla Corte costituzionale per superare il regime
provvisorio e realizzare il pluralismo. Il Parlamento ha portato da 12 a 4
i mesi per la verifica e ha dato poteri efficaci all'Autorità. La seconda
osservazione presidenziale riguardava l'ampiezza del Sistema integrato
delle comunicazioni (Sic), che potrebbe consentire a chi abbia ricavi del
20 per cento di esso, di godere di una posizione dominante. Il Parlamento
l'ha ridotto, ma di poco: la riduzione si può stimare intorno al 15% del
Sic.
La terza osservazione era relativa alla raccolta pubblicitaria
radiotelevisiva, che inaridisce una fonte di finanziamento della stampa.
Il Parlamento, da un lato, ha previsto l'obbligo delle amministrazioni
pubbliche di impegnare, nella fase di transizione, a favore dei giornali,
almeno il 60% delle risorse destinate a fini di comunicazione
istituzionale; dall'altro, ha spostato dal 2008 al 2010 la possibilità
per le imprese televisive di acquisire la partecipazione in imprese
editrici di giornali.
Il primo accorgimento si presta alla facile osservazione che, in tal modo,
le televisioni non si privano di risorse pubblicitarie, mentre scaricano
sullo Stato l'onere (peraltro già previsto fin dal 1987) di assicurare la
«fonte di finanziamento della libera stampa» (Corte costituzionale,
sentenza del 1985). Inoltre, le somme che le amministrazioni pubbliche
destinano all'acquisto di spazi sui mezzi di comunicazione di massa sono
incerte e dipendono in larga misura dal governo, per cui quella
percentuale si riferisce a una base ben poco sicura.
Insomma, il Parlamento ha considerato con attenzione le osservazioni del
Presidente della Repubblica, ma le sue risposte sono state molto limitate.
Se, dunque, ha superato lo scoglio della richiesta di riesame
presidenziale, la legge Gasparri, nella sua nuova formulazione, non ha
chiuso la vicenda costituzionale che si protrae da venti anni, quella
relativa al deficit di pluralismo che deriva dal duopolio televisivo. In
effetti, la situazione di fatto odierna, nella quale i due operatori
maggiori dispongono di circa l'80 per cento degli impianti, hanno il 90
per cento della «audience» e quasi il 97 per cento della raccolta
pubblicitaria, potrebbe essere superata solo da uno sviluppo rapidissimo
del digitale terrestre (quello previsto dalla legge), in modo da erodere
nell'arco di pochi anni la posizione dominante degli «incumbent». Nel
settore delle telecomunicazioni ciò è avvenuto in circa un quinquennio,
e così anche in quello della produzione di energia elettrica. Ma in
questi si trattava di assicurare soltanto la concorrenza. Nel campo
radiotelevisivo, occorre garantire anche il pluralismo. La Corte
costituzionale, dopo tanti pronunciamenti, sarà disposta ad attendere
ancora un quinquennio?
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