Privatizzazione,
il rischio di una vendita al ribasso
I
titoli della tv di Stato risentiranno di una prospettiva di crescita
nettamente inferiore a quella di Mediaset
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- Con un certo ritardo sui tempi fissati dalla legge Gasparri, i
consigli di amministrazione di Rai Spa e di Rai Holding hanno avviato
le procedure per la fusione. Poi, nel giro di 4 mesi, il ministero
dell’Economia, azionista pressoché unico, avvierà il non meglio
precisato «processo di alienazione della partecipazione dello Stato
nella Rai». In teoria, la prima tranche di azioni potrebbe essere
offerta al pubblico ai primi del 2005. Ben pochi credono che la classe
politica italiana voglia davvero rinunciare all’azienda che sente
sua più di ogni altra. E tutti quelli che ricordano la nozione del
conflitto d’interessi rimangono colpiti dalla circostanza che tocchi
personalmente a Silvio Berlusconi, ministro dell’Economia ad interim
lungo e padrone di Mediaset, il potere di stabilire quando e quante
azioni della Rai e a che prezzo e in quali condizioni giuridiche e
concessorie debbano essere poste in vendita. Ma chiudiamo per il
momento tra parentesi questa trave e dedichiamoci alle pagliuzze.
Ci si può chiedere, per esempio, a quale prezzo la Rai possa essere
messa sul mercato. Non esistendo stime ufficiali, vale il paragone con
i concorrenti. In questi giorni, Mediaset quota 30 volte i profitti e
capitalizza 11 miliardi di euro. Secondo il piano industriale firmato
dal direttore generale Flavio Cattaneo (e contestato dall'ex
presidente Lucia Annunziata), nel triennio 2004-2006 il gruppo Rai
dovrebbe realizzare un utile medio di 33 milioni di euro l'anno. Che
darebbe, applicando il multiplo Mediaset, un valore teorico della Rai
pari a un miliardo di euro: una miseria.
Per spuntare prezzi presentabili, l’azionista potrebbe enfatizzare
altri parametri: per esempio il risultato operativo. In quest’ottica
più generosa, medie europee alla mano, le previsioni del piano
Cattaneo porterebbero la valutazione a quota 2,5 miliardi: meglio
della prima, ma sempre lontana dalla capitalizzazione di Mediaset. Una
distanza che impressiona, avendo la Rai un marchio di grande popolarità
e ascolti superiori, sia pur di poco, a quelli della tv berlusconiana.
Ma valutare di più questa Rai sarebbe un'operazione spericolata. La
tv di Stato non è un’aziendina della new economy che possa
presentarsi al nuovo mercato dicendo: nei prossimi anni non guadagnerò
quasi nulla e non vi darò dividendi, ma sto investendo su un piano
speciale che vi farà ricchi più avanti. Cinquant’anni di storia la
smentirebbero. E ancor più la smentirebbe la struttura del suo conto
economico sul quale grava l'equivoco del servizio pubblico che la Rai
ha in concessione fino al 2016.
Che cosa sia sulla carta il servizio pubblico lo stabiliscono la legge
e il contratto triennale tra la società e il ministero delle
Comunicazioni. La Gasparri, tuttavia, è generica e il contratto di
servizio trabocca di dettagli irrilevanti quanto rimane vago nella
sostanza. Prima di privatizzare Autostrade ci vollero anni per
definire il regime concessorio. Qui non si chiarisce nemmeno che cosa
accadrà dopo il 2016. D’altra parte, il servizio pubblico è come
l’Araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.
Tanto meno gli abbonati. Basta scorrere le tabelle che riassumono la
ricerca effettuata dallo Studio Frasi sui palinsesti Rai e Mediaset
tra il 16 e il 22 maggio, una settimana scelta a caso. E’ un
confronto organizzato sul principio di sussidiarietà: lo Stato non
invasivo fa solo quanto i privati non sanno o non possono fare. Il
primo esito della ricerca è che Mediaset non lascia alla Rai generi
da seguire in esclusiva: informazione, sceneggiati, cronaca, sport,
cinema e così via, la sovrapposizione è totale. All'interno di
questa sovrapposizione, alla Rai resta qualcosa di suo: Formula Uno
invece del Moto GP, qualche tv movie europeo (40 minuti su oltre 300
trasmessi) e soprattutto l'informazione regionale. (Si potrebbe
eccepire che pure l’informazione regionale è fornita, non di rado
con perizia, dalle emittenti locali, ma non siamo pignoli). L'insieme
delle trasmissioni esclusive rispetto a Mediaset occupa il 30% del
palinsesto nelle 24 ore. Ciò vuol dire che per i due terzi del tempo
Rai e Mediaset sono la stessa cosa. E qui emerge la grande stranezza:
il canone e gli altri contratti con la pubblica amministrazione danno
il 60% dei ricavi e, poiché la Rai non guadagna quasi nulla, coprono
un’analoga percentuale dei costi. La pubblicità, con il 40% dei
ricavi, finanzia il 70% delle ore trasmesse nella settimana indagata.
Ovviamente, è ben noto che il servizio pubblico comprende anche la
radio (una parte), Rai International (che per lo più ricicla
programmi nazionali), l'archivio, l'orchestra, le trasmissioni per le
minoranze linguistiche. Ma giustificare il canone con il mero elenco
delle funzioni rischia di assomigliare al latinorum di un
Azzeccagarbugli di fronte alla realtà percepita dai telespettatori.
La Rai svolge dunque un servizio pubblico ingiustificabile sul piano
editoriale e però particolarmente costoso. Fino a quando resta per
intero di proprietà dello Stato, questa attività rappresenta un
problema politico. Ma quando le azioni della Rai venissero proposte al
mercato, gli interessi in gioco cambierebbero: chi fosse invitato a
investire avrebbe diritto a veder remunerato l’investimento.
Sfortunatamente, la Rai ha una struttura di costi e di ricavi che la
legge Gasparri sembra pietrificare nella situazione di svantaggio
competitivo con Mediaset. La serie storica dei bilanci delle due
emittenti parla da sé: nel 1994 i ricavi di Mediaset erano pari al
75% di quelli della Rai; 10 anni dopo si sono portati al 109%. Avendo
il canone, la Rai può offrire meno spot di Mediaset: su base
giornaliera viaggia in ragione, più o meno, di uno a tre. Pertanto,
al di là di estemporanei successi congiunturali, la raccolta
pubblicitaria della Rai crescerà sempre meno di quella di Mediaset
perché la base di partenza dei ricavi di mercato è minore. E la
compensazione del canone è insufficiente e incerta, legata alla
discrezionalità del governo come dimostra la storia degli ultimi
anni. Non bastasse questo tipo di duopolio sbilanciato, l’espansione
internazionale - già in atto per Mediaset, improbabile per una Rai
pubblica - ha dato il contributo marginale al sorpasso del Biscione e
ora consoliderà il vantaggio. Quale investitore razionale potrà mai
volere le azioni di un'azienda condannata a correre con l'handicap
senza pretendere lo sconto?
(1-continua)
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