Non solo in Italia si sta disegnando,
consapevolmente o no, la cittadinanza del nuovo millennio. E questo è un
criterio che dovrebbe essere tenuto presente nel valutare i programmi
elettorali, ricordando che il nostro maggior studioso di questi problemi,
Pietro Costa, sottolinea che «cittadinanza tende a divenire un crocevia
di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l´identità
politico- giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione
politica, l´intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri». È il
posto di ciascuno di noi nella società e nelle istituzioni che si sta
definendo. Nascerà una cittadinanza forte, nella quale si riflette una
nuova distribuzione dei poteri sociali, o si va verso una cittadinanza
debole, "sottile", che ne frammenta l´unità e al posto del
cittadino fa piuttosto comparire il puro consumatore o l´individuo
impaurito al quale si offre lo scambio indecente tra sicurezza e rinuncia
a diritti fondamentali?
Accesso alla conoscenza e diritti sul corpo, beni comuni e dignità del
lavoro, solidarietà e rispetto della sfera privata, salute e sicurezza,
forme rinnovate di partecipazione e regole per la comunicazione. Ha detto
bene Chiara Saraceno: «È in gioco il riconoscimento della competenza dei
cittadini di esprimere valori e bisogni». Non basta spruzzare nei
programmi riferimenti a questi temi, in un bricolage istituzionale che
elude il tema centrale della costruzione unitaria della nuova cittadinanza
e dei valori sui quali dev´essere fondata, che sono quelli della
Costituzione repubblicana, riconosciuti anche dalla Carta dei diritti
fondamentali dell´Unione europea con il rilievo attribuito ai principi di
dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà.
Non sono vecchie parole. Pensiamo all´«esistenza libera e dignitosa»
del lavoratore (art. 36 della Costituzione) e valutiamo con questo metro
la questione del lavoro precario, di cui si discute in Italia e che oggi
divide anche la Francia. Da qui, dalle radici dell´esistenza, bisogna
ripartire, perché nessuna organizzazione sociale coesa e giusta può
essere fondata su uomo "flessibile", "precario",
"intermittente", su "vite di scarto", oggi condizione
comune per milioni di lavoratori. Senza questa consapevolezza è
impossibile fondare politiche della formazione, creare ammortizzatori
sociali capaci di contrastare la versione negativa della mobilità,
avviarci verso un reddito di cittadinanza, fare qualcosa che assomigli ad
una politica della famiglia. La precarietà del lavoro impone sudditanza,
non fa nascere legami stabili, preclude l´accesso ai mutui per la casa,
fa riemergere le clausole che impegnano le donne a non avere figli e fa
deperire istituti civili come i permessi familiari per il timore di non
vedersi rinnovato il contratto. L´incertezza del futuro impedisce il
libero sviluppo della personalità di cui la Costituzione parla nel suo
articolo 2.
I diritti delle persone impallidiscono di fronte alle esigenze dell´impresa,
il diritto del lavoro è sopraffatto da una visione del lavoratore come
puro ingranaggio dell´organizzazione produttiva. Una condizione che
conoscevamo per l´impresa fordista, mirabilmente rappresentata da Charlie
Chaplin in Tempi moderni. Ma allora, entrando in quella fabbrica, il
lavoratore si iscriveva a quella che fu chiamata "l´università
della classe operaia", e lì stabiliva legami sociali, scopriva la
forza della solidarietà e la possibilità di azioni collettive per
"il riscatto del lavoro". Oggi questa possibilità è scomparsa
in una organizzazione del lavoro che segmenta, allontana, isola.
La cittadinanza fa così i conti con la logica del mercato. Come nella
dimensione planetaria ci si chiede se la globalizzazione debba passare
attraverso il mercato o i diritti, la stessa alternativa vale per le
politiche nazionali, che debbono liberarsi da una venerazione che ha fatto
diventare il mercato l´unico, invincibile diritto naturale del nostro
tempo, e non uno strumento da governare socialmente. La costruzione della
cittadinanza passa anche attraverso la definizione di ciò che può stare
nel mercato e ciò che deve rimanerne fuori.
Vi sono beni primari irriducibili alla pura logica economica, vere
precondizioni del processo democratico. Pensiamo soltanto ad istruzione e
salute. La scuola pubblica esige il massimo di attenzione e di
investimenti perché costituisce il maggior "spazio pubblico di
confronto", dove le persone imparano a conoscere gli altri ed a
convivere con loro, dove ciascuno è esposto al benefico contagio di tutte
le opinioni, invece d´essere chiuso nei ghetti di scuole dove viene
rinforzata l´identità etnica o religiosa, ponendo così le basi per
future incomprensioni e conflitti. Poche settimane fa la Corte Suprema
della Florida, malgrado le massicce pressioni dei due Bush (uno
governatore dello Stato, l´altro presidente degli Stati Uniti), ha
dichiarato incostituzionale la legge sui voucher a favore di chi vuole
andare in scuole private, sottolineando proprio l´obbligo delle
istituzioni di investire le proprie risorse nell´istruzione pubblica.
Vogliamo ricordare che la nostra Costituzione fa dell´istruzione pubblica
un obbligo dello Stato che deve destinare ad essa tutti i mezzi
disponibili? Ed ha fatto bene, pochi giorni fa, il Tar del Lazio ad
accogliere un ricorso contro una norma della riforma della scuola che
imponeva la valutazione dell´apprendimento della religione: in questo
modo si rischiava di spostare l´asse della valutazione verso scelte e
comportamenti privati, introducendo proprio nello spazio pubblico elementi
di discriminazione e inquinando così l´alta sua funzione laica.
Evidentissime, poi, sono le ragioni che impongono di mantenere il diritto
fondamentale alla salute al centro dell´attenzione pubblica, resistendo a
quelle spinte verso forme di privatizzazione che, come dimostra in
particolare l´esperienza degli Stati Uniti, produce costi elevatissimi
per la società ed esclusione per i singoli (43 milioni di americani
sprovvisti di effettiva tutela). Lavoro, istruzione salute appartengono a
quel nucleo duro di diritti di cui deve essere resa sempre più evidente
la connessione, per evitare che la nuova cittadinanza venga accompagnata
da un riemergere della "cittadinanza censitaria". Non si può
ammettere che una persona abbia tanta salute o tanta istruzione quanta può
comprarne sul mercato. Ricordiamo che il Welfare State non fu inteso
soltanto come dispensatore di provvidenze, ma in primo luogo come un
riconoscimento di dignità e soggettività che non può essere perduto.
Proprio per reagire a queste logiche distruttive si è tornati a parlare
di "beni comuni". Il rifiuto della logica esclusivista dell´appropriazione
privata si estende dalla tutela della biosfera alla conoscenza, all´informazione.
Siamo di fronte alla crisi evidente di istituti tradizionali come il
brevetto e il copyright, di cui anche rigorosi liberisti contestano l´efficienza.
Se il riferimento ai beni comuni non vuole essere solo una scappellata ad
una moda, bisogna dare risposte precise a questioni ineludibili, quali
sono quelle che riguardano i limiti della brevettabilità del vivente e
del copyright su Internet. Quest´ultimo è oggi lo spazio pubblico per
eccellenza, uno spazio di libertà che non può essere sottomesso a
logiche puramente economiche o di sicurezza. Qui, più che altrove, si
coglie la natura di questi nuovi beni comuni, non più dato naturale da
salvaguardare (come l´aria, l´acqua, l´ambiente), ma continua
costruzione collettiva attraverso l´intervento di milioni di persone, che
sono insieme produttori e consumatori di conoscenza.
La conoscenza come bene comune è appunto questo, la sua garanzia è parte
integrante della nuova cittadinanza ed esige impegni concreti per rendere
gratuito l´accesso a Internet, come già si fa variamente nel mondo. No,
dunque, alla privatizzazione di beni comuni: ieri il patrimonio genetico
della popolazione venduto dall´Islanda a privati e così sottratto alla
libertà di ricerca; oggi la cessione alla Juventus delle parti dell´archivio
Rai che la riguardano o la colonizzazione del Web da parte di grandi
soggetti privati (lasceremo solo a Chirac l´iniziativa su questi temi?).
La cittadinanza si lega così all´opposto della proprietà, secondo una
felice formula americana, nella quale, tuttavia, si manifesta non l´antico
programma delle nazionalizzazioni, ma il riconoscimento di una attiva
presenza collettiva. Con tutto questo contrastano le misure restrittive
che impongono tempi lunghi di conservazione dei dati riguardanti il
traffico telefonico e quello su Internet. Tutti i cittadini vengono messi
sotto controllo e questo innesca forme dirette o indirette di censura, ben
al di là delle proclamate esigenze di lotta al terrorismo.
Non si possono far convivere nei programmi elettorali le belle parole sui
nuovi spazi comuni aperti dall´elettronica e il silenzio sull´uso
massiccio proprio delle tecnologie elettroniche per finalità di
sicurezza, con garanzie minime o nulle. Allo stesso modo, in nome dell´efficienza
amministrativa, si insiste sulla connessione tra tutte le banche dati
esistenti, senza rendersi conto che questa immensa disponibilità di dati
può incidere pesantemente sui diritti delle persone. Stiamo parlando
della libertà nel nuovo millennio, che non può essere sottomessa a pure
logiche d´ordine pubblico o di efficienza senza incidere sulla natura
stessa della democrazia.
La libertà, appunto, e con essa quell´esistenza "libera e
dignitosa" che non riguarda solo i lavoratori, ma è garanzia per
ogni cittadino di veder rispettata la propria autonomia nelle scelte di
vita. No, allora, al nuovo proibizionismo che vuole impadronirsi dell´intero
ciclo vitale: dalla nascita (è indispensabile una radicale ripulitura
della legge sulla procreazione assistita) al modo in cui gestire la
propria salute o vivere con il partner (devono cadere le resistenze ai
patti di convivenza, contrastanti con la Carta europea dei diritti
fondamentali), alla morte (devono cadere le resistenze al testamento
biologico, contrastanti con la Convenzione europea di biomedicina). Un uso
autoritario del diritto, che nulla ha a che vedere con l´indicazione di
limiti ragionevoli, vuole far diventare i cittadini prigionieri di una
ideologia. Ma, poiché la nuova cittadinanza si distende ormai sull´Europa
e sul mondo, ecco una nuova forma di provvisorio "asilo" all´estero
per realizzare i diritti, con la nascita del turismo procreativo o della
buona morte. Asilo, però, che non tutti possono permettersi, con il
rischio di nuove forme di cittadinanza censitaria.
Un filo tenace lega le questioni ricordate. Ma questo non compare nei
programmi, se non per frammenti o addirittura con plateali negazioni, e
dunque senza consapevolezza di quale sia oggi la portata di un tema come
la fondazione della cittadinanza. Che deve completarsi arricchendo gli
strumenti nelle mani di cittadini sempre più desiderosi di prendere la
parola. Questo dicono gli straordinari esiti delle primarie. Ma non tutto
può essere affidato a questo strumento, pena la sua rapida usura
(pensiamo agli effetti dell´abuso dei referendum). Altre vie devono
essere aperte quando, eliminata la cattiva riforma della Costituzione, si
tracceranno migliori sentieri costituzionali. E, proprio nella logica di
una espansione dei poteri dei cittadini, è indispensabile ripensare l´iniziativa
legislativa popolare, per farne uno strumento di comunicazione tra
cittadini e Parlamento, così sfuggendo alle tentazioni plebiscitarie.
La nuova cittadinanza può riconciliare i cittadini con le istituzioni, e
con se stessi. Un obiettivo troppo ambizioso per un programma?
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