la Repubblica

VENERDÌ, 17 FEBBRAIO 2006

 

 

Pagina 21 - Commenti

 

I cittadini del futuro

 

 

 

 

STEFANO RODOTÀ


Non solo in Italia si sta disegnando, consapevolmente o no, la cittadinanza del nuovo millennio. E questo è un criterio che dovrebbe essere tenuto presente nel valutare i programmi elettorali, ricordando che il nostro maggior studioso di questi problemi, Pietro Costa, sottolinea che «cittadinanza tende a divenire un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l´identità politico- giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l´intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri». È il posto di ciascuno di noi nella società e nelle istituzioni che si sta definendo. Nascerà una cittadinanza forte, nella quale si riflette una nuova distribuzione dei poteri sociali, o si va verso una cittadinanza debole, "sottile", che ne frammenta l´unità e al posto del cittadino fa piuttosto comparire il puro consumatore o l´individuo impaurito al quale si offre lo scambio indecente tra sicurezza e rinuncia a diritti fondamentali?
Accesso alla conoscenza e diritti sul corpo, beni comuni e dignità del lavoro, solidarietà e rispetto della sfera privata, salute e sicurezza, forme rinnovate di partecipazione e regole per la comunicazione. Ha detto bene Chiara Saraceno: «È in gioco il riconoscimento della competenza dei cittadini di esprimere valori e bisogni». Non basta spruzzare nei programmi riferimenti a questi temi, in un bricolage istituzionale che elude il tema centrale della costruzione unitaria della nuova cittadinanza e dei valori sui quali dev´essere fondata, che sono quelli della Costituzione repubblicana, riconosciuti anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea con il rilievo attribuito ai principi di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà.
Non sono vecchie parole. Pensiamo all´«esistenza libera e dignitosa» del lavoratore (art. 36 della Costituzione) e valutiamo con questo metro la questione del lavoro precario, di cui si discute in Italia e che oggi divide anche la Francia. Da qui, dalle radici dell´esistenza, bisogna ripartire, perché nessuna organizzazione sociale coesa e giusta può essere fondata su uomo "flessibile", "precario", "intermittente", su "vite di scarto", oggi condizione comune per milioni di lavoratori. Senza questa consapevolezza è impossibile fondare politiche della formazione, creare ammortizzatori sociali capaci di contrastare la versione negativa della mobilità, avviarci verso un reddito di cittadinanza, fare qualcosa che assomigli ad una politica della famiglia. La precarietà del lavoro impone sudditanza, non fa nascere legami stabili, preclude l´accesso ai mutui per la casa, fa riemergere le clausole che impegnano le donne a non avere figli e fa deperire istituti civili come i permessi familiari per il timore di non vedersi rinnovato il contratto. L´incertezza del futuro impedisce il libero sviluppo della personalità di cui la Costituzione parla nel suo articolo 2.
I diritti delle persone impallidiscono di fronte alle esigenze dell´impresa, il diritto del lavoro è sopraffatto da una visione del lavoratore come puro ingranaggio dell´organizzazione produttiva. Una condizione che conoscevamo per l´impresa fordista, mirabilmente rappresentata da Charlie Chaplin in Tempi moderni. Ma allora, entrando in quella fabbrica, il lavoratore si iscriveva a quella che fu chiamata "l´università della classe operaia", e lì stabiliva legami sociali, scopriva la forza della solidarietà e la possibilità di azioni collettive per "il riscatto del lavoro". Oggi questa possibilità è scomparsa in una organizzazione del lavoro che segmenta, allontana, isola.
La cittadinanza fa così i conti con la logica del mercato. Come nella dimensione planetaria ci si chiede se la globalizzazione debba passare attraverso il mercato o i diritti, la stessa alternativa vale per le politiche nazionali, che debbono liberarsi da una venerazione che ha fatto diventare il mercato l´unico, invincibile diritto naturale del nostro tempo, e non uno strumento da governare socialmente. La costruzione della cittadinanza passa anche attraverso la definizione di ciò che può stare nel mercato e ciò che deve rimanerne fuori.
Vi sono beni primari irriducibili alla pura logica economica, vere precondizioni del processo democratico. Pensiamo soltanto ad istruzione e salute. La scuola pubblica esige il massimo di attenzione e di investimenti perché costituisce il maggior "spazio pubblico di confronto", dove le persone imparano a conoscere gli altri ed a convivere con loro, dove ciascuno è esposto al benefico contagio di tutte le opinioni, invece d´essere chiuso nei ghetti di scuole dove viene rinforzata l´identità etnica o religiosa, ponendo così le basi per future incomprensioni e conflitti. Poche settimane fa la Corte Suprema della Florida, malgrado le massicce pressioni dei due Bush (uno governatore dello Stato, l´altro presidente degli Stati Uniti), ha dichiarato incostituzionale la legge sui voucher a favore di chi vuole andare in scuole private, sottolineando proprio l´obbligo delle istituzioni di investire le proprie risorse nell´istruzione pubblica. Vogliamo ricordare che la nostra Costituzione fa dell´istruzione pubblica un obbligo dello Stato che deve destinare ad essa tutti i mezzi disponibili? Ed ha fatto bene, pochi giorni fa, il Tar del Lazio ad accogliere un ricorso contro una norma della riforma della scuola che imponeva la valutazione dell´apprendimento della religione: in questo modo si rischiava di spostare l´asse della valutazione verso scelte e comportamenti privati, introducendo proprio nello spazio pubblico elementi di discriminazione e inquinando così l´alta sua funzione laica.
Evidentissime, poi, sono le ragioni che impongono di mantenere il diritto fondamentale alla salute al centro dell´attenzione pubblica, resistendo a quelle spinte verso forme di privatizzazione che, come dimostra in particolare l´esperienza degli Stati Uniti, produce costi elevatissimi per la società ed esclusione per i singoli (43 milioni di americani sprovvisti di effettiva tutela). Lavoro, istruzione salute appartengono a quel nucleo duro di diritti di cui deve essere resa sempre più evidente la connessione, per evitare che la nuova cittadinanza venga accompagnata da un riemergere della "cittadinanza censitaria". Non si può ammettere che una persona abbia tanta salute o tanta istruzione quanta può comprarne sul mercato. Ricordiamo che il Welfare State non fu inteso soltanto come dispensatore di provvidenze, ma in primo luogo come un riconoscimento di dignità e soggettività che non può essere perduto.
Proprio per reagire a queste logiche distruttive si è tornati a parlare di "beni comuni". Il rifiuto della logica esclusivista dell´appropriazione privata si estende dalla tutela della biosfera alla conoscenza, all´informazione. Siamo di fronte alla crisi evidente di istituti tradizionali come il brevetto e il copyright, di cui anche rigorosi liberisti contestano l´efficienza. Se il riferimento ai beni comuni non vuole essere solo una scappellata ad una moda, bisogna dare risposte precise a questioni ineludibili, quali sono quelle che riguardano i limiti della brevettabilità del vivente e del copyright su Internet. Quest´ultimo è oggi lo spazio pubblico per eccellenza, uno spazio di libertà che non può essere sottomesso a logiche puramente economiche o di sicurezza. Qui, più che altrove, si coglie la natura di questi nuovi beni comuni, non più dato naturale da salvaguardare (come l´aria, l´acqua, l´ambiente), ma continua costruzione collettiva attraverso l´intervento di milioni di persone, che sono insieme produttori e consumatori di conoscenza.
La conoscenza come bene comune è appunto questo, la sua garanzia è parte integrante della nuova cittadinanza ed esige impegni concreti per rendere gratuito l´accesso a Internet, come già si fa variamente nel mondo. No, dunque, alla privatizzazione di beni comuni: ieri il patrimonio genetico della popolazione venduto dall´Islanda a privati e così sottratto alla libertà di ricerca; oggi la cessione alla Juventus delle parti dell´archivio Rai che la riguardano o la colonizzazione del Web da parte di grandi soggetti privati (lasceremo solo a Chirac l´iniziativa su questi temi?).
La cittadinanza si lega così all´opposto della proprietà, secondo una felice formula americana, nella quale, tuttavia, si manifesta non l´antico programma delle nazionalizzazioni, ma il riconoscimento di una attiva presenza collettiva. Con tutto questo contrastano le misure restrittive che impongono tempi lunghi di conservazione dei dati riguardanti il traffico telefonico e quello su Internet. Tutti i cittadini vengono messi sotto controllo e questo innesca forme dirette o indirette di censura, ben al di là delle proclamate esigenze di lotta al terrorismo.
Non si possono far convivere nei programmi elettorali le belle parole sui nuovi spazi comuni aperti dall´elettronica e il silenzio sull´uso massiccio proprio delle tecnologie elettroniche per finalità di sicurezza, con garanzie minime o nulle. Allo stesso modo, in nome dell´efficienza amministrativa, si insiste sulla connessione tra tutte le banche dati esistenti, senza rendersi conto che questa immensa disponibilità di dati può incidere pesantemente sui diritti delle persone. Stiamo parlando della libertà nel nuovo millennio, che non può essere sottomessa a pure logiche d´ordine pubblico o di efficienza senza incidere sulla natura stessa della democrazia.
La libertà, appunto, e con essa quell´esistenza "libera e dignitosa" che non riguarda solo i lavoratori, ma è garanzia per ogni cittadino di veder rispettata la propria autonomia nelle scelte di vita. No, allora, al nuovo proibizionismo che vuole impadronirsi dell´intero ciclo vitale: dalla nascita (è indispensabile una radicale ripulitura della legge sulla procreazione assistita) al modo in cui gestire la propria salute o vivere con il partner (devono cadere le resistenze ai patti di convivenza, contrastanti con la Carta europea dei diritti fondamentali), alla morte (devono cadere le resistenze al testamento biologico, contrastanti con la Convenzione europea di biomedicina). Un uso autoritario del diritto, che nulla ha a che vedere con l´indicazione di limiti ragionevoli, vuole far diventare i cittadini prigionieri di una ideologia. Ma, poiché la nuova cittadinanza si distende ormai sull´Europa e sul mondo, ecco una nuova forma di provvisorio "asilo" all´estero per realizzare i diritti, con la nascita del turismo procreativo o della buona morte. Asilo, però, che non tutti possono permettersi, con il rischio di nuove forme di cittadinanza censitaria.
Un filo tenace lega le questioni ricordate. Ma questo non compare nei programmi, se non per frammenti o addirittura con plateali negazioni, e dunque senza consapevolezza di quale sia oggi la portata di un tema come la fondazione della cittadinanza. Che deve completarsi arricchendo gli strumenti nelle mani di cittadini sempre più desiderosi di prendere la parola. Questo dicono gli straordinari esiti delle primarie. Ma non tutto può essere affidato a questo strumento, pena la sua rapida usura (pensiamo agli effetti dell´abuso dei referendum). Altre vie devono essere aperte quando, eliminata la cattiva riforma della Costituzione, si tracceranno migliori sentieri costituzionali. E, proprio nella logica di una espansione dei poteri dei cittadini, è indispensabile ripensare l´iniziativa legislativa popolare, per farne uno strumento di comunicazione tra cittadini e Parlamento, così sfuggendo alle tentazioni plebiscitarie.
La nuova cittadinanza può riconciliare i cittadini con le istituzioni, e con se stessi. Un obiettivo troppo ambizioso per un programma?