la Repubblica   SABATO, 03 DICEMBRE 2005 

 

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IL SABATO DEL VILLAGGIO

 

UN´ALTRA RAI PER CAMBIARE LA TV

 

 

 

 

GIOVANNI VALENTINI


In attesa che il centrosinistra concluda il suo travaglio programmatico e partorisca finalmente un´ipotesi di riforma organica della tv, ammesso poi che ne sia capace, scende in campo la "società civile". Un gruppo promosso dalla senatrice Tana de Zulueta (Verdi), già corrispondente dall´Italia del settimanale inglese The Economist, composto da giuristi, artisti e giornalisti (tra i quali anche il sottoscritto), ha presentato in Cassazione una proposta di legge d´iniziativa popolare sul sistema televisivo, di cui ha dato notizia la Gazzetta Ufficiale del 25 novembre. La raccolta delle firme inizierà a gennaio e a quel punto potrà scattare, auspicabilmente, la mobilitazione dei cittadini.
Se è vero - come riferiscono da più parti le indiscrezioni - che il confronto all´interno dell´Unione sul programma s´è incagliato proprio sulla riforma del servizio pubblico, questa iniziativa popolare risulterà tanto più utile e opportuna. Da qui, infatti, bisogna necessariamente partire per assicurare all´intero settore un assetto equilibrato e pluralista. La Rai è, da sempre, il sismografo più sensibile della vita politica italiana e chi volesse ricostruire il diagramma completo delle scosse telluriche può andare a leggere l´ultimo libro di Peter Gomez e Marco Travaglio citato all´inizio: vi troverà anche i peccati e le omissioni del centrosinistra, in questa e nelle precedenti legislature.
La chiave di volta, come abbiamo sempre sostenuto su queste pagine, è l´affrancamento dell´azienda dalla schiavitù della politica. Fino a quando i dirigenti della Rai - il presidente, i consiglieri di amministrazione, il direttore generale, i direttori di rete o di testata e i loro vice o sottovice - saranno nominati direttamente o indirettamente dai partiti, di centrodestra o di centrosinistra, il servizio pubblico sarà inevitabilmente di parte e dunque non sarà tale. E aggiungiamo pure che fino a quando il bilancio dipenderà in larga misura dalla pubblicità, cioè dagli indici di ascolto, la tv di Stato soffrirà di strabismo: un occhio al canone e uno all´audience.
Senza una riforma strutturale della Rai, non si potrà mettere mano neppure alla televisione privata e Iddio solo sa, invece, quanto sia necessario. Il duopolio televisivo va affrontato contemporaneamente su entrambi i fronti, per garantire appunto il pluralismo dell´informazione e la libera concorrenza, ma anche per non adottare una linea "punitiva" nei confronti di Mediaset. Soltanto in questo modo si potrà decongestionare il mercato - mentre la transizione al digitale, com´era facile prevedere, slitta intanto al 2008 - per consentire così una maggiore distribuzione delle risorse pubblicitarie e quindi un riequilibrio a favore della carta stampata e di tutti gli altri media.
Nella proposta di legge d´iniziativa popolare, dunque, il controllo dell´intero settore non è più del Parlamento o della Commissione parlamentare di Vigilanza che viene abolita, ma passa al Consiglio per le Comunicazioni audiovisive a cui spetta la nomina sia del vertice Rai sia dell´Autorità di garanzia. Questo organismo è composto da 21 membri: sette indicati dai presidenti delle Camere, tra i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, nel rispetto del principio di parità uomo-donna; tre sono nominati, uno per ciascuno, dalla Conferenza delle Regioni, dall´Associazione nazionale Comuni italiani e dall´Unione delle Province; gli altri 11, vale a dire la maggioranza, sono espressi da un ampio arco di categorie sociali: sindacati, imprenditori, artisti, autori di opere letterarie, associazioni dei consumatori e per la tutela dei minori, associazioni degli utenti radiotelevisivi, mondo della ricerca scientifica e universitaria.
Dalla Rai dei partiti, o meglio della partitocrazia, si passerebbe insomma alla "Rai dei cittadini". Un servizio pubblico degno di questo nome, in grado di svolgere le sue funzioni al di fuori dell´influenza politica. E quindi, di essere davvero neutrale, imparziale, equidistante, con una programmazione – come si legge all´articolo 3 – "improntata agli interessi e ai valori della collettività".

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In vista dell´imminente revisione della direttiva europea sulla "Televisione senza frontiere" per armonizzare le legislazioni nazionali, il presidente della Federazione editori di giornali, Boris Biancheri, impugna l´anomalia del caso italiano per invocare la tutela di "una stampa libera e pluralista" e sollecitare "un´equa distribuzione delle quote di mercato pubblicitario". Per questo, a suo avviso, è necessario mantenere il limite orario di programmazione pubblicitaria (20%) e anzi estenderlo a tutte le forme di pubblicità, comprese naturalmente le telepromozioni.
Gli editori puntano poi il dito contro il cosiddetto product placement, quella forma di pubblicità occulta attraverso cui l´inserzionista paga un programma per promuovere un marchio o un prodotto, permessa dal 2004 solo per il cinema. Siamo, ormai, al di là della classica sponsorizzazione: "Questa trasmissione è offerta da…". Rischiamo così di arrivare alla committenza televisiva, alla tv su ordinazione, al palinsesto à la carte. Provate a immaginare quale tipo di sceneggiato, serial televisivo o reality show potrebbe avere interesse a promuovere – per esempio – un´azienda di superalcolici, di sigarette o magari di profilattici.
La differenza, fra cinema e televisione, sta proprio nella maggiore invasività di quest´ultima. Nel primo caso, bisogna andare al cinema; nel secondo, è la tv che viene in casa, a ogni ora del giorno e della notte. L´appropriazione indebita e lo sfruttamento intensivo che la televisione italiana – pubblica e privata – ha consumato ai danni del cinema, infarcendo i film di spot a ripetizione, sono un´altra prova dei guasti prodotti a tutto il sistema della comunicazione.
(sabatorepubblica.it)