In
attesa che il centrosinistra concluda il suo travaglio programmatico e
partorisca finalmente un´ipotesi di riforma organica della tv, ammesso
poi che ne sia capace, scende in campo la "società civile". Un
gruppo promosso dalla senatrice Tana de Zulueta (Verdi), già
corrispondente dall´Italia del settimanale inglese The Economist,
composto da giuristi, artisti e giornalisti (tra i quali anche il
sottoscritto), ha presentato in Cassazione una
proposta di legge d´iniziativa popolare sul sistema televisivo, di
cui ha dato notizia la Gazzetta Ufficiale del 25
novembre. La raccolta
delle firme inizierà a gennaio e a quel punto potrà scattare,
auspicabilmente, la mobilitazione dei cittadini.
Se è vero - come riferiscono da più parti le indiscrezioni - che il
confronto all´interno dell´Unione sul programma s´è incagliato proprio
sulla riforma del servizio pubblico, questa iniziativa popolare risulterà
tanto più utile e opportuna. Da qui, infatti, bisogna necessariamente
partire per assicurare all´intero settore un assetto equilibrato e
pluralista. La Rai è, da sempre, il sismografo più sensibile della vita
politica italiana e chi volesse ricostruire il diagramma completo delle
scosse telluriche può andare a leggere l´ultimo libro di Peter Gomez e
Marco Travaglio citato all´inizio: vi troverà anche i peccati e le
omissioni del centrosinistra, in questa e nelle precedenti legislature.
La chiave di volta, come abbiamo sempre sostenuto su queste pagine, è l´affrancamento
dell´azienda dalla schiavitù della politica. Fino a quando i dirigenti
della Rai - il presidente, i consiglieri di amministrazione, il direttore
generale, i direttori di rete o di testata e i loro vice o sottovice -
saranno nominati direttamente o indirettamente dai partiti, di
centrodestra o di centrosinistra, il servizio pubblico sarà
inevitabilmente di parte e dunque non sarà tale. E aggiungiamo pure che
fino a quando il bilancio dipenderà in larga misura dalla pubblicità,
cioè dagli indici di ascolto, la tv di Stato soffrirà di strabismo: un
occhio al canone e uno all´audience.
Senza una riforma strutturale della Rai, non si potrà mettere mano
neppure alla televisione privata e Iddio solo sa, invece, quanto sia
necessario. Il duopolio televisivo va affrontato contemporaneamente su
entrambi i fronti, per garantire appunto il pluralismo dell´informazione
e la libera concorrenza, ma anche per non adottare una linea
"punitiva" nei confronti di Mediaset. Soltanto in questo modo si
potrà decongestionare il mercato - mentre la transizione al digitale, com´era
facile prevedere, slitta intanto al 2008 - per consentire così una
maggiore distribuzione delle risorse pubblicitarie e quindi un
riequilibrio a favore della carta stampata e di tutti gli altri media.
Nella proposta di legge d´iniziativa popolare, dunque, il controllo dell´intero
settore non è più del Parlamento o della Commissione parlamentare di
Vigilanza che viene abolita, ma passa al Consiglio per le Comunicazioni
audiovisive a cui spetta la nomina sia del vertice Rai sia dell´Autorità
di garanzia. Questo organismo è composto da 21 membri: sette indicati dai
presidenti delle Camere, tra i rappresentanti di tutti i gruppi
parlamentari, nel rispetto del principio di parità uomo-donna; tre sono
nominati, uno per ciascuno, dalla Conferenza delle Regioni, dall´Associazione
nazionale Comuni italiani e dall´Unione delle Province; gli altri 11,
vale a dire la maggioranza, sono espressi da un ampio arco di categorie
sociali: sindacati, imprenditori, artisti, autori di opere letterarie,
associazioni dei consumatori e per la tutela dei minori, associazioni
degli utenti radiotelevisivi, mondo della ricerca scientifica e
universitaria.
Dalla Rai dei partiti, o meglio della partitocrazia, si passerebbe insomma
alla "Rai dei cittadini". Un servizio pubblico degno di questo
nome, in grado di svolgere le sue funzioni al di fuori dell´influenza
politica. E quindi, di essere davvero neutrale, imparziale, equidistante,
con una programmazione – come si legge all´articolo 3 –
"improntata agli interessi e ai valori della collettività".
* * *
In vista dell´imminente revisione della direttiva europea sulla
"Televisione senza frontiere" per armonizzare le legislazioni
nazionali, il presidente della Federazione editori di giornali, Boris
Biancheri, impugna l´anomalia del caso italiano per invocare la tutela di
"una stampa libera e pluralista" e sollecitare "un´equa
distribuzione delle quote di mercato pubblicitario". Per questo, a
suo avviso, è necessario mantenere il limite orario di programmazione
pubblicitaria (20%) e anzi estenderlo a tutte le forme di pubblicità,
comprese naturalmente le telepromozioni.
Gli editori puntano poi il dito contro il cosiddetto product placement,
quella forma di pubblicità occulta attraverso cui l´inserzionista paga
un programma per promuovere un marchio o un prodotto, permessa dal 2004
solo per il cinema. Siamo, ormai, al di là della classica
sponsorizzazione: "Questa trasmissione è offerta da…".
Rischiamo così di arrivare alla committenza televisiva, alla tv su
ordinazione, al palinsesto à la carte. Provate a immaginare quale tipo di
sceneggiato, serial televisivo o reality show potrebbe avere interesse a
promuovere – per esempio – un´azienda di superalcolici, di sigarette
o magari di profilattici.
La differenza, fra cinema e televisione, sta proprio nella maggiore
invasività di quest´ultima. Nel primo caso, bisogna andare al cinema;
nel secondo, è la tv che viene in casa, a ogni ora del giorno e della
notte. L´appropriazione indebita e lo sfruttamento intensivo che la
televisione italiana – pubblica e privata – ha consumato ai danni del
cinema, infarcendo i film di spot a ripetizione, sono un´altra prova dei
guasti prodotti a tutto il sistema della comunicazione.
(sabatorepubblica.it)
|