Caro
direttore, è finalmente disponibile il testo integrale del disegno di
legge deliberato dal Governo in materia radiotelevisiva. Per capire l´esatta
portata di una legge è meglio consultarla dalla fine, cominciando con il
valutare le abrogazioni, l´insieme delle norme che vengono eliminate per
lasciare spazio alle nuove disposizioni. Si capiscono meglio tante cose e,
soprattutto, le intenzioni meno dichiarate del legislatore.
In questo caso l´obiettivo generale è preciso: eliminare le parti
caratterizzanti delle due leggi – politicamente non gradite - che
avevano definito, da un lato, la fisionomia del servizio pubblico a metà
degli anni 70 (la legge di riforma n.103 del 1975) e dall´altro le regole
fondamentali nel nuovo sistema delle telecomunicazioni, nell´ultima
legislatura (la legge n. 249 del 97, cosiddetta Maccanico). Della legge
Mammì, già considerata "compiacente" verso Berlusconi, viene
eliminata la parte relativa alle disposizioni antitrust, permissive nel
1990, oggi addirittura giudicate insoddisfacenti.
Tutto questo impianto viene sostituito con una normativa di puro
principio, ricopiata dalle norme europee, ma priva di qualsiasi
concretezza cogente perché rinviata per l´attuazione, in parte ad una
delega governativa, in parte a regolamenti dell´Autorità o del Ministero
e, per il resto, alle Regioni, in relazione della loro nuova potestà
legislativa. Il Parlamento viene quindi sostanzialmente esautorato, messo
fuori gioco, riguardo ad una serie di importanti decisioni relative al
settore delle comunicazioni e quindi delle libertà dei cittadini.
Il resto del disegno di legge si limita a tre scelte principali e tutte
potenzialmente lesive dei diritti dei cittadini in materia di
informazione. La prima scelta e´ quella diretta ad allargare i limiti
antitrust, già larghissimi nel nostro paese, eliminando il limite
settoriale per la televisione (30% del mercato) ed introducendo un mercato
di riferimento più ampio (sistema integrato delle comunicazioni) cui
applicare il limite del 20%. Possibilità dunque per i soggetti dominanti
di crescere ancora. Per affermare un principio giusto e cioè la
possibilità degli editori di giornali di entrare nel settore della
televisione, si rinuncia a qualsiasi criterio di bilanciamento tra grandi
e piccoli imprenditori radiotelevisivi.
La scelta va in direzione opposta rispetto all´allargamento del
pluralismo (maggior numero di televisioni in concorrenza tra di loro) e
sancisce l´egemonia assoluta di Mediaset, dato che la Rai viene tenuta
sotto controllo attraverso i limiti del canone e i più ridotti indici di
affollamento pubblicitari. I cittadini hanno dunque una minore possibilità
di scelta. Le indicazioni contenute nelle sentenze della Corte
costituzionale e in particolare nella decisione n.420 del 1994, sulla
necessità di limiti settoriali e intersettoriali, sono totalmente
dimenticate.
La seconda scelta è quella di aumentare enormemente gli obblighi e i
doveri a carico della Rai, a confronto di quelli inesistenti delle
emittenti private (definite peraltro soggetti di servizio pubblico) e di
sancire la dipendenza formale del suo Consiglio di amministrazione dall´Assemblea
degli azionisti e quindi dal Governo.
L´"ingessatura" della Rai contenuta nei minuziosi obblighi
indicati negli articoli 15,16,17,18 e 19 (ora vincolata anche ad un
contratto di servizio regionale), realizza quella televisione di servizio
pubblico residuale e a "sovranità limitata", spesso sognata
dagli amministratori di Mediaset, e ne compromette decisamente le capacità
imprenditoriali nei confronti del concorrente privato, sprovvisto invece
di qualsiasi obbligo, nonostante gli indubitabili vantaggi derivanti dalla
concessione e libero di muoversi con pochi limiti sul mercato
pubblicitario.
Per la prima volta, dopo il 1975, la nomina del Consiglio di
amministrazione della Rai viene ricondotta all´Assemblea degli azionisti
e quindi al Governo che possiede direttamente le azioni della Rai (una
volta realizzata l´incorporazione della Rai in Rai Holding). La Corte
costituzionale nella sentenza n.225 del 1974 aveva esplicitamente vietato
la dipendenza "diretta" degli organi di governo della Rai dall´Esecutivo.
Il nuovo d.d.l. ignora clamorosamente quest´indirizzo e quindi
risulterebbe incostituzionale almeno fino alla privatizzazione della
maggioranza del capitale sociale (non basta differirne l´entrata in
vigore alla data di chiusura della prima offerta di vendita). I cittadini
hanno una televisione pubblica meno indipendente e una televisione privata
senza alcun tipo di obblighi.
La terza scelta è quella di procedere, a partire dal gennaio del 2004, ad
una privatizzazione del capitale della Rai che per il modo in cui è
disciplinata è una privatizzazione "al buio". Il Governo è
autorizzato a vendere quote della partecipazione della Rai con l´unico
limite di non vendere a ciascun soggetto più dell´uno per cento. Il
patto di sindacato non può superare il due per cento. Una quota è data
in opzione a chi dimostri di aver pagato il canone (soluzione più comica
o più demagogica?). Il modello proposto è quello della public company.
Quali sono i precedenti in Italia? Quali sono le garanzie che non vi siano
tra gli acquirenti altre forme di alleanza diverse dal patto di sindacato.
Quali sono le certezze giuridiche che la vendita non sia al buio e che gli
acquirenti, in posizione di dominio, non siano sempre i soliti noti? Gli
unici esempi che conosciamo hanno realizzato ben presto un nucleo di
controllo.
Non è contraddittorio aumentare le "ingessature"
pubblicistiche, da un lato, e puntare alla privatizzazione dall´altro.
Non si tratta di una svendita? Quale credibilità in questa operazione di
privatizzazione può avere, del resto, un Ministro che, come unico
precedente in questo campo, vanta il blocco dell´accordo economico più
vantaggioso della storia della Rai con il quale si privatizzava meno del
50 per cento di una società di servizi (Raiway). I cittadini perdono le
garanzie che può dare (in astratto almeno) una televisione pubblica
indipendente e rischiano di avere un nuovo editore di riferimento amico
degli amici.
Il Presidente della Repubblica, nel suo primo messaggio solenne alle
Camere, in materia di informazione (il primo su questo tema e il decimo
nella storia repubblicana) aveva sottolineato a gran voce la necessità
del maggior pluralismo possibile per garantire la democraticità dell´ordinamento.
Aveva anche chiesto che una nuova legge desse attuazione ai principi più
volte richiamati dalla Corte costituzionale. L´opinione pubblica aveva
salutato coralmente e con entusiasmo l´intervento del Capo dello Stato.
Il Parlamento aveva accolto quel messaggio con una breve discussione in un´aula,
peraltro, quasi deserta. Il governo, da parte sua, ha ascoltato il
Presidente nella forma ma lo ha tradito, clamorosamente, nella sostanza
riducendo in maniera pesante i margini di quel pluralismo che il
Presidente e la Corte costituzionale avevano, invece, più volte invocato.
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